di Vito Bianco
L’ultimo e molto stimolante saggio di Aldo Schiavone, L’occidente e la nascita di una civiltà planetaria, pubblicato dall’editore bolognese il Mulino come primo titolo della collana Faustiana (sei i titoli previsti e già annunciati) ha per argomento la storia e il futuro possibile della civiltà occidentale impegnata, a detta dell’autore, in una sfida epocale: realizzare, o non realizzare, una civiltà planetaria all’altezza della globalizzazione tecnocapitalista, con un diritto e una democrazia globale in grado di governare la forza dirompente del capitale finanziario ubiquo che sempre più spesso travolge i confini dei singoli Stati e in loro vece impone nuove interessate regole. Sarebbe, secondo Schiavone, l’approdo conclusivo di un destino inscritto nei cromosomi culturali della nostra parte di mondo.
E nonostante il ritorno della contraddizione e del negativo, anche nella forma feroce di una guerra d’invasione alle porte dell’Europa, Schiavone, che combina saggiamente la profondità dello storico con il bagaglio teorico del meglio della filosofia europea (l’ultima citazione sulla vocazione all’infinità del finito viene dalla Logica di Hegel) scommette sulla prevalenza degli spiriti benigni e la lungimiranza di un Occidente inventore, con il cristianesimo e i lumi del concetto universale di umanità, in tal modo rilanciando, e con buoni argomenti, l’utopia kantiana di una democrazia sovranazionale nel segno questa volta di un diritto “impersonale” che protegga ogni singolo rappresentante della specie e l’intero ecosistema naturale.
Il che equivale a immaginare un Occidente-mondo, per usare la sintesi del saggista, ossia un pianeta che ha introiettato il modello politico e culturale prodotto dalla vicenda storica prima europea e poi statunitense, entrato in una fase di maturità e di compimento i cui indizi sarebbero già adesso visibili nel presente sebbene coperti e offuscati da risorgenti tensioni contrarie. La speranza sarebbe perciò racchiusa in una particolare accezione della modernità, un concetto con cui indicare una consapevolezza collettiva preludio di un nuovo ordine dove sia escluso il ricorso alle armi.
“L’Occidente ha costruito ciò che abbiamo chiamato modernità” afferma Schiavone, “e l’ha fatto non solo per sé stesso, ma per tutto l’umano: ce ne stiamo appena rendendo conto”. Anche se forse questa modernità non è altro, continua lo storico, che uno straordinario “per quanto difficile prologo. Una faticosa e non lineare preparazione del salto decisivo che solo adesso stiamo iniziando a spiccare”.
Un salto che dovrebbe quindi portare l’umanità tutta oltre se stessa, per inverarare sul piano della concretezza istituzionale e politica i pensieri e le immaginazioni che è stata capace di produrre.
La speranza e l’ottimismo sono molto ben argomentati, ma non bastano, a mio parere, a tenere a bada il pessimismo di chi non riesce a sottovalutare le deviazioni e le resistenze che concorrono a perpetuare disordine, disuguaglianze, chiusure identitarie, dure contrapposizioni geopolitiche che sembravano finite con l’ultimo secolo, dominio quasi incontrastato del principio di profitto e così via, a comporre un quadro desolato, per non dire decisamente disperante.
Ci sarebbe da fare qualche considerazione critica sulla contraddittorietà della storia occidentale, da sempre perturbata da un lato oscuro che fin troppo spesso ha preso il sopravvento, nonostante la memoria delle catastrofi belliche, i nobili principi, le disattese promesse di pace e le vette speculative della sua ammirevole filosofia.
Perché mai, viene spontaneo domandarsi, dovrebbero ora o in futuro affermarsi la ragione e il senso del limite? E quali sarebbero i fatti concreti che renderebbero probabile questo pronostico? I fatti che abbiamo sotto gli occhi sono, purtroppo, di segno opposto; e non ho in mente solo l’Ucraina.
Ma, contro il mio stesso disincanto realista, io spero che abbia ragione Aldo Schiavone quando scrive che tocca “ancora all’Occidente di aprire la strada, di indicare il corso della nuova storia innanzi a noi”, poiché il sistema di poteri che determina la tecnoeconomia globale esige […] una soggettività altrettanto globale, che si ponga sul suo stesso piano”. E così venga infine contraddetta l’amara costatazione del filosofo: “L’unica cosa che gli uomini imparano dalla storia è che dalla storia gli uomini non imparano niente”.