di Vito Bianco
Per entrare in argomento farò due esempi: uno colto e l’altro popolare. Nel primo il protagonista è Voltaire; nel secondo Carlo Verdone. Oggi ti scrivo una lettera lunga perché per una breve non ho tempo, scrive l’autore di Candide all’amata nipote. Non perderti in preamboli e vai dritto al punto, dice Verdone in C’era un cinese in coma all’autista Giuseppe Fiorello che non sa (ancora) come si racconta una barzelletta. Fiorello imparerà così bene la lezione da diventare una star di quella che oggi si chiama stand up comedy, e per il povero Verdone saranno dolori – ma questa è un’altra storia.
Quel che voglio dire – l’avrete capito – è che uno scrittore di microfinzioni è un signore che ha tempo da perdere. Perché scrivere breve è difficile, e può volerci molto per arrivare al risultato finale. Ma è anche un signore tanto bravo a raccontare le sue personali barzellette da non sospettare nemmeno che ci si possa perdere in preamboli. Sto esagerando; ma non troppo.
Solo quel tanto che serve a entrare nello spirito – ovviamente inafferrabile – di questa cosetta stramba, bizzarra, eccentrica, umbratile e misteriosa che per brevità chiamiamo microfinzione, e che forse sarebbe meglio chiamare microracconto, dato che tutto ciò che trapassa in scrittura diventa, se il trapasso, la “transustanzione” è riuscita finzione, favola, manufatto verbale: letteratura.
“Microrrelato”, dicono quasi sempre in Argentina, dove il genere è abbastanza praticato, tra gli altri da due autrici non più giovani che scrivono anche “short stories” e “novelas”, romanzi: Ana María Shúa e Luisa Valenzuela, che su come si scrivono ha tenuto dei laboratori che laggiù si chiamano talleres. Già, come si scrivono? E: si può imparare a scriverli? E poi: cosa deve avere un microracconto per “funzionare”?
Come si scrivono non lo so, e sospetto che non lo sappiano nemmeno gli autori di Multiperso, la bella e stuzzicante antologia curata da Carlo Sperduti che raccoglie testi di autori italiani già apparsi dell’omonimo sito letterario (pièdimosca edizioni, pp. 168), primo volume della collana Glossa, titolo che rimanda a un gran romanzo di Juan José Saer, anche lui argentino, ma come Cortázar espatriato in Francia intorno ai trent’anni e mai più tornato. O forse ciascuno di loro darebbe una risposta diversa. Alla seconda domanda risponderei così: si può imparare a scriverli meglio. Leggendo con attenzione quello che hanno fatto gli altri, per esempio: le due signore già citate; o il nostro Manganelli (Centuria); o la statunitense Lydia Davis (Inventario dei desideri). E da oggi i miniaturisti di Multiperso, dalla a di Gaetano Altopiano alla zeta di Luca Zanini, e gli altri che stanno in mezzo che non citerò per non farla lunga.
Ma un certo innato talento, una certa inclinazione a vedere quello che non c’è ma potrebbe esserci, un certo modo di guardare le cose ordinarie di sguincio e con sospetto sono, direi, un retroterra imprescindibile. Insieme all’orecchio, ovviamente, l’orecchio è importante quanto l’occhio.
Per funzionare deve avere questo sguardo e l’orecchio, ossia la musica giusta, più qualcosa di imponderabile che tiene insieme il tutto, un’aura di necessità che costringe il lettore a…a non dire niente. Il microracconto deve, come diceva Elisabeth Bishop della poesia, sorella della narrazione sintetica, “prendere il lettore alle spalle”.
Insomma -parafrasando quel che Kraus diceva dell’aforisma – il microracconto non è né un romanzo né un mezzo romanzo. È un romanzo e mezzo.