di Tano Siracusa
Fotografando con le pellicole in bianco e nero era come se, per una momentanea forma di acromatopsia (si chiama così la rara patologia), i colori non venissero percepiti. Mentalmente venivano convertiti in gradazioni diverse di grigio e così consegnati alla memoria: i ricordi di quei viaggi sono in bianco e nero. Anche la luce veniva percepita in bianco e nero. Ancora oggi fotografi illustri sostengono che solo il bianco e nero può restituirne la purezza.
Il digitale ha poi cambiato molte cose. Ha reso possibile non solo ‘vedere’ il colore ma anche sottrarlo facilmente, con certi programmi perfino simulando la grana delle vecchie pellicole in b/n. E ha reso evidente, con la poetica irrealtà del bianco e nero, l’infedeltà di quella sottrazione, anche nella luce.
A metà degli anni ’90 i colori dell’India si trovavano in un sorprendente libro di McCurry sui monsoni, ma con l’eccezione di McCurry e pochissimni altri, dell’india si vedevano solo fotografie in bianco e nero, da Cartier Bresson all’elegantissimo Marc Riboud, da Scianna ad Ackerman, le cui foto a Benares avrebbero costituito una importante discontinuità con il canone della tradizione ‘francese’. Ma anche le sorprendenti inquadrature del fotografo americano restituivano un mondo immaginario, di cui si potrebbe aver voglia di vedere il colore, la luce colorata.
Non ho memoria dei colori di Benares, Delhi, Agra nell’’89 e nel’95, mentre ho un ricordo visivo nitido dei colori anche notturni, un po’ bruciati nel 2010, quando scendeva la sera in un villaggio del Kerala: con la camera digitale era possibile ormai fotografare anche di notte, con la scarsa, diradata luce dei lampioni o dei neon dentro le botteghe o da un taxi in corsa. La sera, sul lungo viale polveroso del piccolo ospedale che aveva fronteggiato il catastrofico tsunami del 2004, le suore vibravano come farfalle nella luce rossastra dell’illuminazione artificiale. E di giorno i colori saturavano gli spazi.
Per un verso l’astrazione dal colore semplificava l’immagine, almeno nel senso di sottrarre un elemento che potrebbe avere un ruolo decisivo nel decidere l’inquadratura. A volte il colore, una macchia di colore, può costituirne il centro, strutturandola. A volte è l’insieme delle tonalità cromatiche a suggerire la composizione. Per altro verso l’astrazione dal colore costringeva l’immagine in un reticolo di pure geometrie, meglio se complicate.
In quel fantasmogorico mondo in bianco e nero di folle derelitte e sorrisi incomprensibili, di miseria e di eleganza, di mostruosità che combinavano in una delirante ibridazione le forme umane con quelle di un molteplice, sacro bestiario, di magnificenze architettoniche e fatiscenti baraccopoli, in quell’universo sfuggente e indecifrabile l’unica ambizione del fotografo era di isolare un frammento di spazio, di linee, di masse, di ombre e luce, una intelaiatura di geometrie attorno a un minimo evento. L’assenza del colore veniva ‘naturalizzata’ dall’abitudine. L’avvento del digitale l’ha resa visibile, ha spezzato l’automatismo dell’ acromatopsia indotta nei fotografi del bianco e nero, e insinuato il dubbio di una perdita.
Come quei due a Benares che leggevano i giornali per strada nel chiarore ipogeico emanato dall’ombra e acceso sul foglio del lettore in primo piano. O come l’interno del barbiere rischiarato da una lampadina. I colori di quelle luci potrei giurare di non averli mai visti, e mi sembra una perdita.
Il digitale ha reso possibile la restituzione del colore, la sua ‘visibilità’ e la sua sottrazione. Le pellicole in bianco e nero non concedono aggiunte, non potendo restituire un colore mai percepito. Tuttavia, a distanza di tanti anni, quella perdita irrimediabile del colore se non autorizza ingenui stupori lascia filtrare una specie di paradossale rammarico: non del passato, ma di un futuro tecnologico oggi familiare e in quegli anni non disponibile. Che una buona foto a colori possa essere stampata in un ottimo bianco e nero è possibile. Non è possibile il contrario, e come molte altre cose inevitabili anche questa può apparire uno sgarbo del caso.