di Vito Bianco
C’è un personaggio indimenticabile in Vita e destino, un “apostolo della bontà illogica”, come lo definisce il narratore, al quale Vasilij Grossman sembra affidare il compito di rappresentare il proprio punto di vista. Si chiama Ikonnikov, ed è, si potrebbe dire, un uomo che ha sperimentato tutte le ingiurie del male che il suo secolo è stato capace di produrre. Ikonnikov, che molto ricorda il principe Myškin, ha cercato Dio ma ha trovato la crudeltà e l’orrore.
Ma anziché arrendersi alla nuda e inconsolabile disperazione, Ikonnikov si forgia un credo filosofico il cui indistruttibile nucleo è non il bene, bensì la bontà; una bontà semplice, individuale, gratuita e fine a se stessa, forte e attiva quanto più appare debole e fragile e quanto meno si propone – a differenza del bene – un programma di generale felicità o una palingenesi da realizzare nel nome di una pacificata umanità futura.
Questa bontà che resiste anche alla distruzione e all’odio più efferato è la straordinaria scoperta di Ikonnikov, un miracolo della natura umana che non smette di meravigliarlo. Perché la bontà è un sentimento “contronatura”, illogico, compare inaspettato quando nulla lo lascia sperare, è incomprensibile, assurdo, indecifrabile.
Rinchiuso in un lager nazista, Ikonnikov è il teologo della libera religione della bontà e l’uomo che porta sulle spalle il peso dei due incubi del ventesimo secolo, il nazismo e lo stalinismo. Qui conosce Mostovskoj, funzionario bolscevico, che incarna la cecità ideologica, la fedeltà all’idea che il partito ha sempre ragione e agisce sempre per il bene del popolo. È però l’unico che lo ascolta e non lo considera un povero disgraziato fuori di testa a causa delle sofferenze patite e viste.
“Quando scoppiò la guerra” scrive Grossman, “e i tedeschi invasero la Bielorussia, Ikonnikov vide le sofferenze e assistette allo sterminio degli ebrei nelle città e negli shetetl bielorussi. E ripiombò in una sorta di isteria: supplicava conoscenti e sconosciuti di nascondere gli ebrei, e lui stesso cercò di salvare donne e bambini. Non ci volle molto perché lo denunciassero e, scampato alla forca per qualche miracolo, si ritrovò nel lager”. Nella sua testa regna il caos; ma dentro questo caos si muove un pensiero lucido capace di toccare l’essenziale.
Mostovskoj lo aveva conosciuto un giorno “che Ikonnikov gli si era avvicinato e lo aveva fissato a lungo, senza parlare”. Quando il bolscevico gli chiede se ha buone notizie l’altro risponde con una domanda: che cos’è il bene? Mostovskoj scoppia a ridere. Deve sembrargli una domanda ridicola. Gli fa tornare in mente le discussioni tra il padre e il fratello seminarista. Dice che è una domanda con la barba bianca. Una domanda che si sono fatti in molti senza trovare una risposta: buddisti, cristiani, marxisti. Ma ora “ci sta riuscendo l’Armata Rossa”. Il bene è quindi la strenua resistenza all’invasione dell’esercito tedesco. Quando poi Ikonnikov afferma che le persecuzoni dei bolscevichi hanno giovato all’idea cristiana, “perché prima della rivoluzione la Chiesa era in uno stato pietoso”, il comunista ironizza: “Lei è un vero dialettico. Alla mia età veneranda posso dire di aver assistito a un vero miracolo”. Ma il tolstoiano Ikonnikov (“Sono stato un seguace del conte”) non ha nessuna voglia di scherzare. E replica deciso: “No. (…) Per lei il fine giustifica i mezzi, e i suoi mezzi sono spietati. Non sono un dialettico e non sarò il suo miracolo”.
Un anno prima ha visto giustiziare ventimila ebrei, donne, vecchi, bambini. Quel giorno ha capito che Dio non poteva aver permesso nulla di simile, e gli era parso chiaro che non esiste. Ikonnikov tornava dal lavoro “coperto di mota, fradicio, si avvicinava al pancaccio di Mostovskoj e gli chiedeva: ‘Posso starmene un po’ qui con lei?’. Si sedeva, sorrideva senza neanche guardare il suo interlocutore e si passava la mano sulla fronte”. Nessuna dialettica e nessun miracolo, quindi: la posizione di Ikonnikov è quella di un impolitico che giunge alla fede nella bontà dopo aver eleminato, per così dire, tutto il superfluo: le costruzioni ideologiche, le fedi organizzate, la convinzione che sia possibile realizzare sulla terra un’armonia duratura e perfetta.
Quel che rimane è il mistero assoluto di un uomo che compie un gesto d’amore per un altro uomo rischiando la vita. “Non ci credo, io, nel bene. Io credo nella bontà” afferma. Anche la collettivizzazione era a fin di bene…E ancora: “Se lo chiede a Hitler (…) le dirà che anche questo lager è a fin di bene”. Mostovskoj avverte di avere di fronte un uomo fuori dal comune, con una mente che ha meditato a lungo questioni fondamentali. “Quando discuteva con Ikonnikov, Mostovskoj sentiva che la sua logica era come un coltello che tentava invano, scioccamente, di infilzare una medusa”.
Ikonnikov riesce a mettere per iscritto il frutto delle sue sofferte ma affilate riflessioni. Il testo, che Mostovskoj si ritroverà in tasca e leggerà, si apre con la costatazione che “buona parte dei viventi non si cura di definire il ‘bene'”. Eppure il bene è un concetto problematico che ha bisogno di spiegazioni. In che consiste? A chi lo si fa? E soprattutto, “esiste un bene comune applicabile a ogni uomo, a ogni razza, a ogni circostanza?”
La risposta è negativa: l’idea di bene muta col mutare delle epoche e delle circostanze: “Il bene dei primi cristiani, il bene degli uomini tutti venne sostituito dal bene dei soli cristiani, a cui si affiancava il bene dei musulmani e il bene degli ebrei”. Passarono i secoli ed ecco che il bene dei cristiani “si scisse nel bene dei cattolici e dei protestanti, e nel bene degli ortodossi. (…) Poi è toccato al bene dei ricchi e a quello dei poveri, e infine al bene dei gialli, dei neri, dei bianchi”.
Ma accadde che gli uomini si avvidero “che molto sangue era stato versato per quel bene piccolo piccolo che buono non era, e in nome della sua battaglia contro ciò che si riteneva male”.
Conflitto e lotta dominano lo svolgimento della storia e la vita della natura: “L’ho vista muoversi, la foresta, l’ho vista contendere senza pietà un palmo di terra all’erba e agli arbusti. (…) Così vive il bosco, nell’eterna lotta di tutti contro tutti. Solo un cieco può pensare che ci sia pace nel regno degli alberi e delle erbe”. Che la vita sia davvero il male?, si chiede Ikonnikov. Quel che è certo è che il bene non è nella natura; e nemmeno nelle prediche degli apostoli e dei profeti.
Ed è assente anche nelle teorie dei sociologi e nell’etica dei filosofi. Ciò che invece esiste, che possiamo sperimentare tutti i giorni, è la bontà, quella della vecchia “che porta un pezzo di pane a un prigioniero, la bontà del soldato che fa bere dalla sua borraccia un nemico ferito, la bontà della gioventù che ha pietà della vecchiaia, la bontà del contadino che nasconde un vecchio ebreo nel fienile”. Può sembrare poco ma è l’umano che nel disumano resiste e fa credere che il male non prevarrà nella “sua guerra contro l’uomo”. Perché la bontà, scrive Ikonnikov nel freddo del lager, “amore cieco e muto”, è “il senso dell’uomo”.