di Tano Siracusa
Nel 1859, pochi anni dopo ‘l’invenzione fatale’, Baudelaire scriveva sulla fotografia: “Associando e raggruppando gaglioffi e gaglioffe agghindati come i macellai e le lavandaie a carnevale, pregando questi eroi di voler prolungare, durante il tempo necessario all’operazione, la loro smorfia di circostanza, ci si illuse di rendere le scene, tragiche o leggiadre, della storia antica.”
Fin da subito l’invenzione della fotografia aveva animato l’ambiente artistico parigino e l’intervento di Baudelaire tracciava un confine di retorica, nobile resistenza che sarebbe presto stato travolto. Lo aveva temuto e previsto: “Se si concede alla fotografia di sostituire l’arte in qualcuna delle sue funzioni, essa presto la soppianterà o la corromperà del tutto, grazie alla alleanza naturale che troverà nell’idiozia della moltitudine.”
Il poeta francese, che si era messo in posa davanti a Nadar nell’evidente tentativo di adeguare un’immagine ideale di sè, non poteva però immaginare che lo sconfinamento della fotografia sarebbe avvenuto proprio da quel mondo dell’oltre che profondamente affascinava il suo aristocratico maledettismo.
Il ‘mosso fotografico’ agli inizi era un inconveniente da evitare con pose lunghe diversi secondi,come evidenzia con sarcasmo lo stesso Baudelaire e come testimoniavano gli amici di Degas sottoposti a interminabili sedute di posa.
Ma già nel 1860 l’americano William H. Mumler per una casuale doppia esposizione aveva stampato la prima di una lunga e fortunata serie di ‘fotografie di fantasmi’, che trovava nelle camere oscure di un secolo e mezzo fa un adeguato luogo di evocazione.
Il dominante contesto culturale positivista, propizio e favorevole all’affermazione della fotografia, veniva infiltrato da suggestioni tardoromantiche, da una critica anticipata della modernità, della sua prosaicità, della meccanizzazione che alimentava ‘l’idiozia della moltitudine’. La passione per i fantasmi, le sedute medianiche, l”oltre’, faceva da controcanto alla celebrazione delle ‘magnifiche sorti e progressive’ officiata dalla borghesia.
Lo sciittore catanese Luigi Capuana, il teorico del verismo siciliano, si dichiarava molto più interessato all’al di là che al mondo reale, raccontato e descritto con una programmatica ‘impersonalità’ che sarebbe dipiaciuta al poeta francese. Capuana appassionato di spiritismo, si definiva un ‘maniaco della camera oscura’. Nel 1880 aveva allestito un sofisticato studio personale per stampare.
Era inevitabile che il ‘mosso fotografico’ da inconveniente legato alla scarsa sensibiltà dei materiali utilizzati diventasse una risorsa per un immaginario visivo destinato a oltrepassare l’orizzonte della prosaica quotidianità e dello spleen baudeleriano.
Negli anni che precedono il primo conflitto mondiale Anton Giulio Bragaglia realizzò dei mossi fotografici nell’ambito della ricerca futurista sul movimento. Le sue immagini, che seguono le ricerche scientifiche di Edward James Muggeridge, hanno un’evidente intenzione estetica, lontana sia dai modelli ottocenteschi che dagli sviluppi simbolisti del primo Novecento. Il “Dinamismo di un cane al guinzaglio” di Balla del 1912 è solo uno dei tanti esempi di scambio e sovrapposizione fra i linguaggi della pittura e della fotografia in quegli anni.
In Italia Giacomelli, che pure realizzò pochi ‘mossi’, è stato forse il primo a farne un uso che sonfinava felicemente dal recinti della fotografia amatoriale riformulando il dialogo con i pittori. Ma negli anni ’60 del secolo scorso il confine tracciato da Baudelaire un secolo prima era da tempo scomparso.
Con l’avvento del digitale il mosso fotografico è diventato una ‘maniera’, moltiplicato in innumerevoli immagini, spesso spettacolari, scattate e ritoccate con sofisticati cellulari da appassionate moltitudini di fotoamatori e sapientemente utilizzato anche da alcuni reporter.
Ma è l’intero universo del visuale che è stato riformulato, all’interno del quale la fotografia sembra destinata al continuo oltrepassamento di se stessa. Ben oltre gli sconfinamenti temuti da Baudelaire.