di Tano Siracusa
Certo quella sera del 1967 a Sanremo qualcosa era andato storto. Nei primi piani impietosi della tv in bianco e nero Luigi Tenco appariva stravolto. Si era presentato in giacca e cravatta, lui che non le metteva mai, perchè allora i cantanti non si vestivano da clown. Aveva cantato male. La canzone che aveva scritto e riscritto si intitolava Ciao amore, ciao, e avrebbe avuto un meritato successo postumo come il resto della sua produzione. Fabrizio De Andrè pochi mesi dopo avrebbe dedicato all’amico suicida Preghiera in gennaio.
Anche a Blanco l’altra sera a Sanremo qualcosa è andato storto, e difficilmente la sua reazione verrà ricordata con un verso.
Se è vero che il Festival è ben più della politica rappresentativo del paese reale, ci si può chiedere cosa riflettano quelle due serate e i loro protagonisti dei rispettivi contesti storici.
Tenco aveva 28 anni, e nelle sue canzoni si riconosceva quella parte della sua generazione che avrebbe vissuto l’utopia del ’68. I ventenni di allora: ma solo una parte, una minoranza nel ’67 ancora silenziosa. I ventenni di oggi che impazziscono per Blanco non sono affatto una minoranza, nè sono silenziosi, e si affacciano su un panorama che alimenta gli incubi di un futuro distopico.
Forse fra l’orripilante sceneggiata di un ragazzo immerso nell’irrealtà dello spettacolo e la tragica serata del cantautore genovese c’è la distanza che passa fra una generazione che abita la finzione, la sua fondamentale irrealtà, lo spazio illusorio della ‘scena’, e una generazione che si accingeva a sperimentare l’ultima fiammata di utopia novecentesca, destinato prima alla festa e poi alla definitiva sconfitta.
Un anno dopo, nel fatidico 1968, avrebbe vinto il Festival Sergio Endrigo, un altro poeta musicista, istriano profugo in Italia, che con i genovesi Paoli, Bindi, Lauzi, Tenco e i milanesi Gaber e Iannacci rinnovava in quegli anni la canzone d’autore italiana sulla scia dei Brel, dei Brassens, dei Dylan e Cohen, non a caso tradotti e cantati tutti da De Andrè (anche Brel raccontano gli amici, purtroppo non in una sala di incisione).
C’era qualcosa nell’aria, un vento di protesta contro le ingiustizie sociali e l’orizzonte del conformismo borghese, contro il potere e le sue armi, contro una guerra per noi lontana, quella in Vietnam, che aveva ispirato anche alcune canzoni di Luigi Tenco.
Oggi la guerra è vicina. Kiev è vicina, e Damasco o Beirut sono meno lontane di Kiev. E si erigono muri, fili spinati, illusorie barriere non contro i fantasmi di antichi eserciti, ma contro chi scappa dalla guerra e dalla fame, e ci si riarma contro i nemici che minacciano la grande bomba. E non c’è nell’aria nessuna speranza, nessuna utopia dietro l’angolo, nessun vento di protesta contro la follia dei potenti.
Solo i calci all’arredo floreale del teatro Ariston di un giovanotto che ha milioni di adoratori, ai quali ha spiegato subito dopo di essersi voluto “divertire”. Con una disarmante inconsapevolezza dell’avvenuto cortocircuito fra realtà e finzione, fra quello che aveva fatto e quello che aveva creduto di fare.
E’ passato più di mezzo secolo fra le due serate e ovviamente la peggiore non è stata l’ultima.
L’ unico ponte che unisce l’indimenticabile serata del ’67 al dimenticabile incidente dell’altra sera, Luigi Tenco a Blanco, l’Italia di allora con quella di oggi, è che in entrambi i casi si è deciso che lo spettacolo doveva continuare. Oltre l’insensatezza della realtà, la finzione, l’irrealtà dello spettacolo, deve comunque continuare. Facendo fuori i responsabili di questa edizione indecorosa del Festival reclama il governo, e non per i calci di Blanco, già dimenticato, ma perchè un altro giovanotto, anche lui seguito da milioni di adoratori, ha chiesto alla Meloni di legalizzare la cannabis.