(Merda d’artista – Piero Manzoni – Museo del ‘900 – Milano)

Il privilegio di frequentare Milano per ragioni di lavoro mi consente, di tanto in tanto, di dedicare qualche ora ad una delle innumerevoli occasioni culturali che la città generosamente offre. In questi giorni ho deciso di visitare il museo del ‘900 per apprezzare il nuovo percorso espositivo delle opere in mostra, definito lo scorso anno, e contemplare ancora una volta “Il Quarto Stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Purtroppo il quadro non c’era, perché in prestito alla galleria d’arte moderna, in compenso ho passato due ore in compagnia di Boccioni, Sironi, Balla, Carrà, Morandi, De Chirico, Manzoni, Picasso, Klee, Kandinskij, Modigliani e tanti altri artisti del secolo scorso.

Seguendo l’itinerario espositivo, mi soffermo su un’opera particolare di Piero Manzoni: “Merda d’artista”. Negli anni ’60, l’artista sigillò 90 lattine di 30 grammi ciascuna con dentro le proprie feci (forse, qualcuno sostiene si tratti semplicemente di sabbia) e le mise in vendita al prezzo di 30 grammi d’oro. Oggi il prezzo di quelle latte, presenti nei più famosi musei del mondo, ha largamente superato il prezzo dell’oro: nell’ultima vendita del 2016 una di queste confezioni, la numero 69, è stata battuta all’asta per 275.000 euro. Con la sua provocazione, il Manzoni, uno dei maestri dell’arte concettuale, voleva denunciare i meccanismi perversi e le contraddizioni dell’arte contemporanea: qualsiasi prodotto viene considerato arte, e premiato commercialmente, non per il suo valore intrinseco, per le capacità tecniche e il talento dell’artista, per il messaggio che trasmette o per le emozioni che suscita nello spettatore, ma semplicemente per la notorietà dell’autore o perché un circuito autoreferenziale di critici e galleristi ne ha decretato il valore artistico. Ma, se tutto ciò che proviene dall’artista è per definizione arte, allora a maggior ragione lo è il suo prodotto più intimo: la merda, appunto. Magnifica la provocazione di Piero Manzoni.

(Fontana – Marcel Duchamp)

A riprova di quanto il valore artistico dell’arte contemporanea sia opinabile – quello economico è ben definito dalle aste milionarie – un gustoso episodio che riguarda Pablo Picasso e la fotografa e pittrice Dora Marr, una delle sue tante amanti.  

Invitato ad una festa, fa arrivare a casa di Dora un’enorme cassa di legno con su scritto di suo pugno: mittente Picasso. Si può immaginare la curiosità e l’attesa di chi aveva visto arrivare quel dono, pensando ad un capolavoro dell’artista. Aperta la cassa, venne fuori una sedia. Un’orribile sedia di ferro e corda, troppo grande e scomoda, oltre che malridotta. Ma nessuno pensò che un oggetto regalato dal più grande artista del secolo, confezionato da lui medesimo, potesse essere brutto. Pensarono tutti: lui vede la bellezza dove noi, privi del suo genio, non riusciamo a vederla. In realtà quell’obbrobrio era un messaggio di stima ed amore verso la sua amante. Diceva: solo tu, fra tanti sciocchi adoranti, capirai che si tratta solamente di una brutta sedia rotta e non di un’opera d’arte. 

Tutto cominciò quando Marcel Duchamp, nel 1917, ebbe l’idea di capovolgere un orinatoio e di esporlo a New York con il titolo di “Fontana”. Dette vita ad enormi polemiche, spinse critici e commentatori a parlarne, finché qualcuno cominciò a ipotizzare che quell’oggetto potesse essere arte. Addirittura, la più grande opera d’arte del ‘900. Capovolgendo l’orinatoio Duchamp ne stravolge la funzione trasformandolo da latrina in fontana che zampilla. Un oggetto sporco e volgare, con un semplice artifizio, diventa prezioso e ricercato. Qualcuno arriva anche a vedere nell’opera la testa di una Madonna rinascimentale, perché l’arte può essere sacra e importante, senza che il soggetto o i materiali lo siano. Chiaramente, l’artista si prende gioco del conformismo e della seriosità dei contemporanei, lanciando un appello ad andare oltre il “bello” convenzionale e mercificato.

(Armadi – installazione di Jannis Kounellis – Palazzo Riso, museo d’arte contemporanea)

Il tema della riconoscibilità e del valore dell’arte contemporanea viene spassosamente affrontato nel film “Così parlò Bellavista” (1985) dal professore, alias Luciano De Crescenzo, e dai suoi discepoli Saverio lo spazzino e Salvatore il vice-sostituto portiere, che si accapigliano sul concetto di arte dopo aver visitato, e non pienamente compreso, una serie di installazioni ospitate in una mostra di arte contemporanea. In particolare, disquisiscono su un’opera di Tom Wesselmann in cui appare, a dimensione naturale, il contesto familiare di un bagno con tanto di lavandino, specchio e gabinetto. Attira la loro attenzione soprattutto il gabinetto che, come commenta con espressione soavemente ironica il cicerone Riccardo Pazzaglia (nei panni del marchese decaduto Filiberto Bonajuto di Pontecagnano, esperto d’arte a pagamento) esprimerebbe egregiamente la sofferenza dell’artista.

I due amici faticano ad intravedere la cifra estetica dell’opera e chiedono consiglio al prof. Bellavista che, nonostante un dotto riferimento al  concetto di arte del filosofo Protagora, non chiarisce appieno i dubbi dei litiganti. 

Allora, ecco il colpo di genio di Salvatore che ricorre ad un confronto dirimente, tirando in ballo i posteri. Il vice-sostituto portiere così argomenta: un mio amico muratore ha trovato sotto le macerie di una villa un quadro di Luca Giordano (un noto pittore napoletano del ‘600) e, pur non essendo particolarmente istruito, ha capito subito di trovarsi di fronte ad un’opera di notevole valore artistico, sospendendo i lavori ed avvisando la soprintendenza ai beni culturali. Orbene, continua ad argomentare sornione, tra mille anni un ipotetico muratore del futuro, avendo la ventura di trovare sotto i resti di una villa dell’anno tremila proprio l’opera di Wesselmann, cosa penserà? Riterrà di aver trovato un capolavoro, oppure un cesso scassato?

L’inappellabile responso del professore pone fine alla disputa estetica: “sicuramente penserà ad un cesso scassato”.