di Tano Siracusa
Fino agli anni ’50 del secolo scorso Agrigento era famosa nel mondo per il suo patrimonio archeologico e per avere dato i natali a Luigi Pirandello. L’immagine della città era consegnata alle numerose pagine in cui lo scrittore vi aveva ambientato le sue storie, una via Atenea sonnambolica, gli interni piccolo borghesi, qualche scorcio delle viuzze e degli slarghi di Girgenti, i tanti preti e i popolani sofisti, e alle stampe dei numerosi viaggiatori che a paartire dal ‘700 avevano ammirato e riprodotto la valle e la sua luce, i resti dell’ antica Akragas immersi nella campagna mediterranea, fra le palme, i mandorli e gli ulivi. Su qualcuna di quelle stampe si vede in alto, arroccata dietro i resti di un tempio dorico, la città medievale, con la Cattedrale normanna nel colle più alto, la Girgenti ancora chiusa dentro il recinto delle mura chiaramontane. Rabato, il quartiere arabo dei contadini, e la chiesetta di san Calogero, il santo nero, erano fuori le mura.
Questo paesaggio rimane sostanzialmente uguale se stesso per più di mezzo millennio fino all’unità d’Italia. Le mura chiaramontane sarebbero state abbattute infatti subito dopo il 1860 assieme alla Porta di Ponte. Durante il fascismo, per la costruzIone della Stazione Ferroviaria, sarebbe stato demolito l’ultimo tratto a sud, verso la valle.
Nel secondo dopoguerra Agrigento era poi come fuoriuscita da se stessa, da un suo confine anche ideale, era scivolata fino a straripare oltre l’antico, secolare recinto invadendo gli orti maleodoranti sotto la nuova Stazione Centrale, estendendosi disordinatamente verso la campagna e la valle dei templi.
Il primo atto programmatico del Comune era stato quello di demolire la villa Garibaldi, la più importante villa comunale. Pochi anni dopo spariva per volontà della Diocesi la facciata barocca della centralissima chiesa di Santa Rosalia. Avvisaglie di una forma domestica di ‘modernità’ rivelatasi rovinosa.
Erano gli anni in cui metà della popolazione residente emigrava in cerca di fortuna e altrettanta si inurbava nel capoluogo dall’entroterra. Erano gli anni del primo notabilato democristiano al governo della città e della grande euforia edilizia: in un quadro normativo inadeguato, senza un piano regolatore e nel consenso pressoché unanime, veniva eretta una quinta di cemento armato fra la valle e la vecchia città murata. Erano le nuove mura, quelle della nuova Agrigento, palazzoni alti anche venti piani che a differenza delle mura chiaramontane hanno oscurato il centro storico, spazzato via interi quartieri, una magnifica arena cinematografica, e interrotto la continuità visiva fra la città greca e la vecchia città medievale ancora diffusamente abitata.
La frana del 1966 avrebbe fatto scoprire ad una stupefatta opinione pubblica nazionale e internazionale una città irriconoscibile rispetto a quella di soli venti anni prima, storpiata dal segno di una ‘modernità’ fuori scala, motivata esclusivamente dall’interesse privatistico e speculativo.
Da allora la città dei templi e di Pirandello è diventata anche la città dei ’tolli’, simbolo di un disastro urbanistico al quale non si è voluto rimediare. Solo una minoranza di ambientalisti e intellettuali a partire dagli anni ’90 ha tentato senza successo di sostenere una revisione urbanistica che prevedesse anche interventi di decostruzione, già tabuizzati nel dibattito pubblico quando erano stati previsti da un piano particolareggiato per il centro storico.
Oggi, trenta anni dopo, quel centro storico è in disfacimento. Fra tetti sfondati, saracinesche arrugginite e scalinate dove cresce una rigogliosa vegetazione spontanea, la vecchia città accoglie un resto di nativi, molti immigrati e molti dei viaggiatori che si recheranno al Parco Archeologico, premiato in questi anni da un crescente numero di visitatori. A un volo di rondine dal B&B dove alloggiano è difficile per i turisti vedere fra un palazzone e l’altro la valle e il mare, distanti pochi chilometri.
Rimane solo il Viale della Vittoria, i suoi marciapiedi dissestati, come ‘balcone’ sulla valle assediata dal cemento, mentre le distanze in una città di meno di 60 mila abitanti sono diventate quelle di una metropoli. Una vastissima periferia che ha precipitato i prezzi delle abitazioni in una prolungata bolla edilizia e dove spostarsi per chi non dispone di un mezzo privato di trasporto è un problema. I mezzi pubblici da decenni sempre affidati alla medesima ditta risultano del tutto inadeguati, i taxi rari e carissimi. Una linea ferrata che potrebbe collegare Porto Empedoccle al capoluogo, che attraversa la valle, viene utilizzata solo un paio di volte l’anno per i turisti mentre potrebbe diventare una metropolitana di superficie. Per consumo del suolo e forme di mobilità Agrigento appare il rovescio di un modello urbano ecocompatibile.
Il presente della città racconta la sua storia, i suoi momenti di splendore, le tante tracce di architettura chiaramontana e barocca, i palazzi signorili, le numerosisssime chiese, i giardini privati che profumano di zagara, il grande convento; e i periodi di declino, di abbandono, descritti anche con i vuoti e le assenze, i palazzi crollati, la facciata barocca smontata e sparita sessanta anni fa, il grande palazzo signorile più volte restaurato e mai aperto al pubblico, il Museo civico chiuso per lavori di restauro da decenni, un magnifico teatro all’aperto mai utilizzato in un grande parco abbandonato, a una passeggiata dai templi, circondato e spesso invaso dai rifiuti.
E, ormai invisibili agli abitanti, quei palazzoni che incombono come un’allucinazione, come un passato che si è messo davanti, che ha compromesso lo sviluppo della città, che ne ha bloccato il futuro facendo fuggire le nuove generazioni.
Se la cultura di una città va ricercata innanzitutto nella sua materialità, nella sua cifra urbanistica, nei tempi di attraversamento delle sue distanze, nella cura e nella salvaguardia delle sue emergenze architettoniche, nell’arredo urbano, nella sua complessiva cifra estetica, allora la candidatura di Agrigento a capitale della cultura del 2025 appare come un significativo paradosso.
Non stupisce che raccolga tanto consenso, era successo anche con la medesima candidatura durante la precedente amministrazione comunale; piuttosto appare come la conferma che la città non ha elaborato ancora la piena consapevolezza della gravità di quanto è accaduto, dell’oltraggio che due generazioni di abitanti hanno imposto a uno dei territori più suggestivi del mediterraneo, e della sua inavvertita, problematica permanenza. Non è meno grave del disastro infatti la sua mancata percezione, di cui la rivendicazione di primati culturali costituisce un ulteriore sintomo. In tutti questi anni le classi dirigenti, incluso il ceto politico, non hanno dato segnali di discontinuità nella valutazione del passato e conseguentemente nei loro indirizzi programmatici e operativi.
Oggi dal PD di Agrigento, che si accinge a dare concretezza programmatica alla ‘discontinuità’ annunciata dalla nuova segreteria nazionale, ci si attende un ripensamento profondo del passato cittadino e uno sguardo lungo sul futuro, su una città restituita a una misura di decoro urbanistico, impegnata nel restauro e riuso dei suoi beni culturali e nella rimozione di tutto ciò che si può realisticamente rimuovere di una cattiva ‘modernità’, dei suoi depositi materiali e dei suoi simboli, dei suoi modelli antiecologici di uso dello spazio e del tempo comuni.