Trentacinque anni fa, nel luglio del 1988, l’associazione Suddovest presentava nel chiostro del museo archeologico Pietro Griffo un libro curato da Peppe Arnone, con la prefazione di Alfredo Galasso, avente per oggetto la riproduzione sintetica della sentenza-ordinanza del maxiprocesso alla mafia della città dei templi, con il titolo: “Mafia, il processo di Agrigento”. Un processo istruito dal giudice Fabio Salamone e alle cui indagini lavorarono i magistrati della procura Roberto Saieva, Salvatore Cardinale e Rosario Livatino, coordinati dal procuratore della repubblica Elio Spallitta. Gli atti di quel processo si intrecciano spesso con quelli della sentenza-ordinanza del maxiprocesso di Palermo ed evidenziano chiaramente i rapporti organici tra la mafia agrigentina e quella palermitana, mettendo in luce il ruolo rilevante assunto, in seno alla commissione interprovinciale di cosa nostra, dagli esponenti della mafia di Agrigento. Proprio per gli intrecci evidenti tra la mafia agrigentina e quella palermitana, al convegno sono presenti il sindaco di Palermo Leoluca Orlando (siamo nel pieno di quella che verrà definita “la primavera palermitana”) e il neo procuratore della repubblica di Marsala Paolo Borsellino.
È in quella sede che Borsellino lancerà un appello preoccupato contro lo smantellamento del pool antimafia di Palermo. Allarme che sarà ripreso e amplificato dalla stampa nazionale (soprattutto dall’ Unità e La Repubblica) , innestando una forte polemica tra i difensori dei magistrati antimafia e quelli che, anche sulla scorta del famoso articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”, accusavano i magistrati di carrierismo. Nel gennaio del 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura aveva negato a Giovanni Falcone, che appariva il candidato naturale a ricoprire quel posto, la responsabilità dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, preferendogli il più anziano Antonino Meli che, in pochi mesi di attività, eliminerà il pool specializzato nelle indagini antimafia (struttura pensata da Rocco Chinnici e realizzata da Antonino Caponnetto) assegnando indistintamente a tutti i magistrati i diversi fascicoli di indagine. Praticamente, Giovanni Falcone e gli altri magistrati antimafia si videro assegnare inchieste di semplici scippi e rapine, mentre magistrati inesperienti si trovarono tra le mani scottanti inchieste che riguardavano delitti riconducibili a cosa nostra. Era la fine delle indagini affidate unitariamente ad un gruppo di magistrati specializzati a cui venivano attribuiti tutti i fascicoli d’inchiesta che riguardavano cosa nostra, nella convinzione, confermata chiaramente dal maxiprocesso di Palermo, che la mafia fosse un’associazione criminale unitaria con un vertice ben definito. Un colpo duro, quello inferto da Antonino Meli, all’efficacia del contrasto alla mafia, e Paolo Borsellino non mancherà di sottolinearlo in una accorata denuncia pubblica nel corso di quel convegno: “Se il pool antimafia deve morire è giusto che muoia davanti agli occhi di tutti”, disse ad Agrigento.
Della difesa appassionata dei colleghi del pool di Palermo e delle vicende che riguardano l’impegno di Paolo Borsellino da procuratore della repubblica di Marsala, parleremo il 17 luglio prossimo, proprio nel luogo del convegno di Suddovest del 1988, con Renato Polizzi, autore del libro “Sul muso del coccodrillo” (Editore Navarra, Palermo) che, attraverso la testimonianza dei più stretti collaboratori del giudice, racconta la storia degli avvenimenti e analizza il periodo, dal 1986 al 1992, in cui Paolo Borsellino fu a capo della procura della repubblica di Marsala. Un periodo intenso, quanto poco attenzionato, per via dei due momenti, uno precedente e l’altro successivo all’esperienza di Marsala, che polarizzano la vicenda professionale del magistrato: il maxiprocesso alla mafia, di cui Borsellino firmò assieme a Falcone l’ordinanza di rinvio a giudizio di 475 affiliati; e gli attentati di Capaci e via D’Amelio in cui furono uccisi i due magistrati.
Da Marsala Paolo Borsellino lancia l’allarme sullo smantellamento del pool antimafia; riorganizza la procura sul modello del pool di Palermo ed inizia la stagione dei più importanti collaboratori di giustizia dopo Buscetta; gestisce le prime donne testimoni di giustizia contro la mafia (Giacoma Filippello, Rita Atria, Piera Aiello); partecipa da uomo di diritto e intellettuale impegnato al dibattito sull’introduzione del nuovo processo penale; diventa protagonista, suo malgrado, della feroce polemica innescata dal già citato articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Per parlare di Paolo Borsellino, delle tracce lasciate negli uffici giudiziari, dello stato della lotta antimafia, sarà presente anche il dott. Fernando Asaro, attuale procuratore della repubblica in carica presso il tribunale di Marsala.
Perché “Sul muso del coccodrillo”?
Il 24 maggio 1992, il giorno successivo alla strage di Capaci, il giornale la Repubblica metteva in prima pagina una vignetta di Forattini con la testa di profilo di un coccodrillo, una lacrima che scende dall’occhio e tra le fauci il “tocco”, il particolare cappello portato dai magistrati quando indossano toga. Il messaggio è chiaro: la Sicilia divora i suoi figli migliori, per poi piangerli ipocritamente. Quella testa di rettile ha la forma della Sicilia e grosso modo sul muso si posiziona la città di Marsala.
Da qui il titolo del libro.