di Giandomenico Vivacqua
foto di Tano Siracusa
Sulla soglia di una trattoria quasi vuota, il padrone non cerca più la ragione della sua scarsa fortuna: l’ha già trovata. Né la discutibile qualità dei cibi, né lo sdegnoso servizio, né l’arbitrio dei prezzi: i nivuri, gli immigrati. Supponendo un’improbabile solidarietà razziale nei pochi, distratti passanti, che non si curano del suo caso, ringhia, ma con prudenza, all’indirizzo di alcuni senegalesi che sull’uscio di una casa poco distante intrattengono allegro simposio. Dall’invettiva non emerge con chiarezza se sia principalmente il suono della lingua wolof o il colore scuro della pelle o la religione islamica a provocare l’inappetenza dei suoi potenziali avventori. “Ma ora li prendo a gargiate”, avverte. Nel silenzio che segue, l’improbabile minaccia è assorbita dai muri di tufo delle case nel vicolo. Provvidenzialmente richiamato in cucina da una voce di donna, l’oste sparisce col suo livore nella tenace nebbia di una frittura mista.
Il Generale De Gaulle ne prese tanti del mio paese, e li fece combattere contro Hitler. Questo me lo raccontava mia nonna, che aveva 105 anni quando morì. Mi raccontava anche di quando le belve la notte graffiavano la porta di casa. Io le belve le ho viste solo al parco zoologico. In casa eravamo in 15: io ed i miei fratelli, i miei nonni, i miei genitori, la seconda moglie di mio padre, i mei zii. Mio padre è morto quando aveva 78 anni. Era un uomo forte, infondeva coraggio, insegnava la sopportazione. Suonava il tamburo. Tutti nella mia famiglia lo suonano. Suonare il tamburo, se sei uno ngueweul, ti scivola nel sangue, lo impari senza sapere come. Il tamburo era la potente voce del re. Uno ngueweul può parlare attraverso il tamburo, può suonare le parole buone e quelle cattive, chiamare la gente col suo nome, parlare con gli antenati. Alcune parole sono pericolose e non devi dirle se non sei preparato: te ne verrebbe un gran male. Il tamburo è il ritmo dell’universo e dalle mie parti, quando piove si dice che Dio suona il tamburo. Il tamburo dà la forza. E’ vero, perché neanche ndeup, il medico tradizionale, riesce a guarire i suoi ammalati dalla febbre o da un’ernia, senza il tamburo e la danza. Questa è una cosa africana, di una religione antica, di prima dell’Islam. Poi il tamburo ha portato l’Africa nella musica dei bianchi. Io posso suonare il mio tamburo con qualunque musica. Io posso insegnare il mio tamburo: solo i suoni, però, perché non esistono parole italiane o francesi per tradurre la lingua del tamburo ngueweul. Du Du Ndiaye Rose. Conosci questo nome? E’ il nome di mio zio, il pù grande percussionista africano. Lui ha fatto concerti in tutto il mondo, anche in Italia, a Milano e a Napoli. Il primo grande musicista africano che ha fatto esibire anche le donne. Io vorrei suonare in Italia con la mia troupe, con i miei compagni musicisti di Thies. Io sto cercando il modo di farli venire qua: potremmo fare dieci concerti al mese, sono sicuro. Potremmo vivere facendo conoscere agli italiani la musica tradizionale africana. Ad Agrigento ho suonato al teatro della Posta Vecchia di Giovanni Moscato: è stato molto bello, la gente ha capito e si è divertita. Giovanni è un artista, un uomo sensibile. Anch’io aiuterò gli artisti della mia città, quando ritornerò in Africa: è il mio progetto. Insieme alla macelleria, una grande macelleria. Perché mio padre era macellaio, ed anch’io lo sono. Avere un progetto è importante, perché sai di lavorare per qualcosa – se questo dai e dai si può chiamare lavoro. Ad ogni modo, al mio paese te lo senti ripetere da quando sei nato: vai a lavorare in Europa e quando hai guadagnato abbastanza, ritorna e ti sistemi. Guadagnare abbastanza però non è facile: ogni settimana devi spedire i soldi a casa. Questo è necessario, perché la tua famiglia senza non vive. Tua madre, i tuoi fratelli piu piccoli, i vecchi. Però loro non capiscono che qui è molto dura. Al mio paese con tremila lire fai da mangiare per dieci persone; qui invece… Poi c’è la casa da pagare: seicentomila lire, perché la mia è una buona casa – hai visto la fotografia? – la divido con mio cugino. Vuoi venire a casa mia? Un altro giorno? Mangiamo il cibo africano. Anche la mia casa in Senegal è una buona casa, è grande e veramente c’è tutto. Per questo ho sofferto all’inizio. Poi però gli amici italiani mi hanno regalato la rete per il letto e così ho smesso di dormire per terra sul materasso. Io questo non lo dimenticherò. E due buone giacche e un paio di scarpe per l’inverno, i miei amici italiani. Non lo dimenticherò. Perché io non lo sapevo, che in Sicilia facesse freddo d’inverno. A Milano mi dicevano: c’è sempre caldo, in Sicilia. Io sono arrivato a Milano in aereo, da Dakar, con un permesso turistico. A Milano c’era già mia sorella con la sua famiglia. All’aeroporto ho avuto paura: tutti quei bianchi, ed io non sapevo dove abitava mia sorella. Un signore mi ha aiutato a telefonare. Sono stato un mese a Milano. Poi sono venuto qui, ad Agrigento, dove mia sorella era già stata, perché senza il permesso di soggiorno, a Milano è pericoloso. Qui no. La polizia, se tu lavori e non fai cose pericolose, ti lascia vivere. Anche la gente è brava qui. Ho tanti amici. Dove lavoro ora, a Porto Empedocle, se chiedi di Badù, tutti mi conoscono. Ho tanti amici, come quelli che comprano le cose per non farti dispiacere. Io lo capisco benissimo: cosa se ne fanno di una sciarpa o di un cappello, loro che hanno già tutto. Lo fanno per me. Forse questo non è proprio un lavoro. Non è un vero lavoro, come la fabbrica. Ma qui non ci sono fabbriche. Quando avrò il permesso di soggiorno, forse andrò al nord, dove ci sono le fabbriche. Ma mi dispiace. Il permesso? Ho portato tutti i documenti in Questura, manca solo la licenza di venditore ambulante, che la Camera di commercio non mi rilascia se non ho il permesso. E’ una cosa che non capisco. Puoi scriverlo? Razzismo? No, qui no. A Milano molto, come in Francia, dove sono stato: ti guardano per strada ma non ti vedono come un uomo. No, qui è diverso. Non è come in Africa, ma quasi. No, amico mio, non lo dico per essere gentile, è vero. Certo, raccogliersi per strada attorno ad un fuoco, far bollire l’acqua del tè e parlare dei propri casi, è una cosa che qua non si può fare: verrebbe la polizia. Forse però una volta lo facevate anche voi, che festeggiate il Santo Calogero, che è nero come Badù. Io mi sono commosso, quando ho visto la statua di un uomo di colore e tutta quella gente devota. Il santo è un uomo spirituale, che durante la sua vita ha fatto del bene e per questo la gente lo ricorda. E’ così? Anche noi ne abbiamo. Forse, non c’è molta differenza, se uno teme Dio e aiuta il suo prossimo. Quando sono arrivato, non avevo nessun indirizzo, mi sono presentato al primo senegalese che ho visto per strada: sono nuovo, ho spiegato. La comunità mi ha aiutato per i primi tempi, dandomi un letto e prestandomi la merce per cominciare l’attività di venditore ambulante. Con i primi guadagni ho restituito la merce – no, non ho pagato nessun interesse – e ho trovato casa. La nostra è una comunità quasi del tutto maschile, anche se le poche donne trovano lavoro più facilmente, come collaboratrici nelle vostre case. Abbiamo un capo che è qui già da 13 anni, Papi, che lavora per dare dignità agli immigrati, perchè anche se noi tutti, ogni giorno, preghiamo di poter ritornare in Senegal, per il tempo che stiamo qui vorremmo essere dei cittadini. Cittadino significa un lavoro e pagare le tasse. Per la festa del Santo a Porto Empedocle ho pagato una tassa comunale per vendere la mia merce: centomila lire per quattro giorni. E’ una cosa giusta, io non voglio che gli altri commercianti mi guardino come uno che ruba, mentre loro sono costretti a pagare. Ad Agrigento non c’è uno spazio per il nostro commercio: se ci fosse, sarebbe giusto pagare. Io mi mortifico quando sono costretto a raccogliere in fretta la merce e scappare, altrimenti i vigili me la portano via. Non è dignitoso. Non è come giocare a guardie e ladri: noi non siamo ladri. E nemmeno bambini. Io lavoro per la mia vita e per la mia famiglia. Sposarmi? Sì, ma vorrei che mia moglie rimanesse ad aspettarmi in Senegal, così lavorerei di più, per la fretta di raggiungerla. Te l’ho detto: non puoi fare questa vita se non hai un progetto. Devi tenerti stretto al tuo piano, pregare e non smarrirti mai. Sì, voglio ritornare in Africa, perché l’Africa non è come la può immaginare la gente di qui, anche se è povera. E tu, come immagini la mia casa africana?
Nella penombra della casa danzano le generazioni di una grande famiglia, cugini che si chiamano fratelli, spose di uno stesso uomo, gelosie addomesticate nella consuetudine, spiriti di antenati, alleanze, consolazioni, preghiere, l’afrore spesso delle pietanze, infantili tafferugli, Allah.
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La storia di Badù l’ho pubblicata su Fuorivista, nel 1999. Il ristorante di cui si parla al principio dello scritto, nel frattempo è passato di mano. Lo hanno rilevato alcuni giovani capaci, motivati, adesso lavora tantissimo. I senegalesi sono ancora lì, evidentemente non erano loro a scoraggiare i turisti e gli avventori in genere.