di Vincenzo Zelo Miceli
L’autunno incede, Porto Empedocle si svuota. Gli emigrati che erano tornati per le vacanze estive sono ripartiti per le città del Nord. Anche gli immigrati che affollavano il molo e si riversavano nella via Roma in cerca dell’ombra di un albero o di cibo ora sono altrove; forse continuano a inseguire la vita verso un orizzonte irraggiungibile.
Ne verranno altri dall’Africa, un fiume di occhi aggrappati alla vita col freddo del mare nelle ossa e la morte scampata portata sulla schiena. Torneranno anche i nostri emigrati, qualcuno anche per natale.
Resta sempre la Sicilia, circondata dal suo mare, nel suo essere sola e al centro di un mondo. Quanti hanno pianto per questa terra? Tutti i suoi figli che l’hanno lasciata e gli occhi stranieri che l’hanno sognata anche solo come primo approdo. Ma oggi sono davvero stranieri questi occhi? A dispetto delle nostre urlate radici cristiane, Ibn Hamdis, nel XI secolo cantò la nostalgia per questa nostra Sicilia nei suoi versi:
“Sicilia mia. Disperato dolore
si rinnova per te nella memoria
Giovinezza. Rivedo le felici
follie perdute e gli splendidi amici
Oh paradiso da cui fui cacciato!
Che vale ricordare il tuo fulgore?
Mie lacrime. Se troppo non sapeste
di amaro formereste ora i suoi fiumi
Risi d’amore a vent’anni sventato
a sessanta ne grido sotto il peso” *
Così scrisse il poeta arabo siciliano costretto all’esilio dalla conquista normanna. Dopo circa novecento anni sarà il poeta e scrittore siciliano Stefano D’Arrigo a rispondere ai versi di Ibn Hamdis con i propri:
“perché tu sempre in gran segreto torni
in patria, incenerito fortilizio,
flagrante e clandestino qui rivivi
a sera quando odora il gelsomino,
fiore che d’aria accompagna il verso
lungo ed estenuante del tuo esilio.” **
Così i poeti parlano attraverso il tempo e continuano una poesia unica ed eterna, come eterna mi pare questa pena di occhi che arrivano e partono, occhi rigettati da ogni terra, gli occhi degli esiliati. Li ho visti nei volti dei tanti africani e, in modo diverso e meno tragico, anche nei volti dei siciliani. I siciliani che aiutano con compassione i bisognosi e i siciliani diffidenti, quelli che vedono nel prossimo non se stessi ma un nemico.
Rischiamo tutti di diventare gente abituata ad arraffare la vita, a proteggere quel che non possiede, a non riconoscersi più.
In questa torrida estate 2023 ho visto esseri umani disperati, ammassati sotto il sole cocente di Porto Empedocle. Ho visto i miei concittadini aiutare chi aveva fame, altri vaneggiare il pericolo di un’invasione da fermare a ogni costo e desiderare un mondo fatto di divisioni e confini invalicabili. Ma questa parola, “confine”, composta da cum (con) e finis (limite), ci può suggerire che confinare vuol dire finire ‒ e quindi anche iniziare ‒ insieme; che un limite è anche un punto di incontro. Che l’Altro ‒ bisognoso, impaurito o pieno di rabbia ‒ potrebbe essere Noi. Che questi occhi così scomodi da portare sono i nostri e dobbiamo prenderne coscienza.
Per provare a riprendere in mano le nostre vite dobbiamo educarci ai sentimenti.
Non abbiamo più tempo.
Dobbiamo lenire il dolore dove possibile, combattere l’indifferenza che sta nel nostro ristrettissimo spazio personale, parlare alla paura di tutti e spogliarla per non soccombere alla sua cattiveria. Dobbiamo guardare la morte sulle nostre coste, ascoltare l’arroganza di chi non vuole guardare e farci i conti. Fare di tutto questo un Uomo e portarlo in salvo.
La Sicilia è ancora qui, dove Ulisse la vide durante le sue sventure, dove Ibn Hamdis fu giovane e felice prima di essere costretto alla fuga, dove i nostri avi chiusero con lo spago troppe valigie di cartone e dove troppi di noi subiscono un progresso vano sognando una vita che in Occidente è diventata una copertina patinata, qui dove masse di disperati approdano e hanno fame e sogni. Qui dove tutti vogliono arrivare e da cui molti vogliono partire. La terra degli esiliati.
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* Traduzione di F. M. Corrao e T. Scialoja
** Versi tratti da Codice Siciliano, Stefano D’Arrigo, Mesogea
Foto di T. Siracusa