di Vincenzo Zelo Miceli
foto, Mauro Galligani
Le conquiste tecnologiche della nostra epoca ci pongono nelle mani mezzi potenti. È stato
straniante, in questi ultimi anni, vedere alternarsi, tra le condivisioni social, video di stragi e squarci
di tranquilla vita quotidiana.
Questo è il tempo della caduta delle maschere. Per opposizione, l’epoca più artificiale di tutte. Ora
le guerre le portiamo in tasca, le macerie sono ad alta definizione. Le foto degli aperitivi susseguono
alle immagini dei civili massacrati.
Molto prima che internet collegasse il mondo, chi non partiva per la guerra ne discuteva nei salotti e
non aveva altra fonte che i giornali. In alcuni romanzi dell’Ottocento e del primo Novecento si
evidenzia già l’abisso che separava i campi di battaglia dalla vita mondana che continuava a esistere
nelle città, prima che i civili diventassero le vittime principali dei conflitti.
Oggi ognuno di noi ha il potere di condividere col mondo un video, nessuna scrematura ci separa
dall’orrore.
Chissà cosa scriverebbero di questi giorni gli scrittori del secolo passato.
Mai come in questi anni la comunicazione si è fatta pura attività di guerra, una forbice che tanto
informa e tanto confonde, ci terrorizza e ci desensibilizza al dolore altrui; ma non ci mette mai di
fronte alla nostra morte, che resta sempre lontana, protetta da uno schermo e da una cultura che ci
illude di poter produrre e accumulare in eterno.
Sotto le notizie la sezione commenti si divide sempre tra i tifosi di una delle due fazioni in campo. I
drammi si susseguono così velocemente da rendere l’indignazione una piccola nausea passeggera, il
mondo che sta fuori dall’Occidente rimane un’anomalia su cui informarsi a distanza, terribile come
un film horror da consumare sul divano sicuro di casa. E la vita continua.
Continua nonostante i morti, la sofferenza, i nostri privilegi.
Nei salotti tivù qualcuno difende la “vendetta” di Israele sui Palestinesi. L’Italia si astiene dal voto
sulla risoluzione presentata all’Assemblea generale dell’Onu che chiede una tregua immediata a
Gaza per gli aiuti umanitari.
Ripenso ai giorni di scuola, quando la pace era un’idea facile da fare a colori sui fogli A4 e la guerra
era sempre sbagliata. C’era già il cortocircuito causato dai telegiornali, con i servizi sui disastri a
Sarajevo, mancava però l’immediatezza di oggi, l’affiancarsi su uno schermo dei nostri post privati a
quelli di chi racconta la guerra.
Mancava, forse, l’impudicizia superba di alcuni opinionisti ed era ancora incipiente la
consapevolezza dell’insostenibilità del nostro stile di vita e del nostro privilegio, del sogno della
crescita smisurata che pure si era già spappolato sui paesi e i quartieri, su tutte le piccole realtà.
Quello che oggi sta accadendo sulla Striscia di Gaza è un conflitto che non ha nulla di nuovo e si
pianta su radici antiche, ma ciò che appare più evidente rispetto al passato è la debolezza
dell’Occidente. Una debolezza che non riguarda la sfera degli interessi economici ma qualcosa di
più profondo come la sua identità; la nostra identità.
Com’è stato possibile, per tutti questi anni e dopo la vergogna della seconda guerra mondiale,
lasciare che certi orrori continuassero ad accadere?
Basta guardarsi indietro per vedere che nel mondo la guerra non è mai finita e che ovunque
l’Occidente è stato sempre in qualche modo presente. Noi, che siamo i buoni, il mondo dello
sviluppo (che ha eclissato il contrapposto progresso spiegato da Pasolini) e della democrazia. Qual è
la nostra vera faccia?
Nei video diffusi dai sionisti su TikTok vediamo questi ultimi scimmiottare civili palestinesi
bendati come il Cristo derisonell’affresco di Beato Angelico, scherzando e divertendosi con
crudeltà. Stesso terrorismo (vale lo stesso se non siamo noi i terrorizzati?) dei seguaci di Hamas.
Sono sempre gli innocenti a soffrire per equilibri e rancori più antichi e grandi di loro.
Intanto in Europa vecchi spettri tornano a profilarsi nelle città, così torna ad apparire nei negozi
degli ebrei la stella di David, aumentano le scritte sui muri che inneggiano al nazismo. La scrittrice
Edith Bruck, sopravvissuta alla deportazione ad Auschwitz e Dachau, esprime un ripensamento
sulle scelte di accoglienza attuate dalla sua ala politica e commenta con paura e sdegno i risultati
dell’accoglienza ai musulmani in Francia, ora additati come antisemiti. La stessa Bruck giorni fa si è
espressa contrariamente sulla presa di posizione di Zerocalcare in favore del popolo palestinese, il
fumettista infatti ha ritirato la sua presenza al Lucca Comics, causa il patrocinio dell’ambasciata di
Israele alla manifestazione. In tutto questo caos resta chiara e netta la posizione di Zerocalcare, che
in un post su Facebook sottolinea “non ho mai pensato che i popoli e gli individui coincidessero coi
loro governi”.
Quando la paura cresce e gli avvoltoi girano intorno alla preda ferita, è indispensabile che la nostra
visione non si appanni. Non generalizzare è doveroso quando in gioco ci sono le vite di esseri
umani. Non dovremmo lasciare che vecchi spettri tornino a tormentarci ma non dovremmo neanche
usarli come scudo per le nostre colpe.
Mi chiedo, cosa resterà tra cinquant’anni nei libri di Storia? Faremo nuove giornate della memoria?
Forse. Magari non ci saranno grandi scrittori a poter raccontare i massacri. I video saranno una
vergogna da seppellire o da riguardare morbosamente, gli uomini saranno sempre più efficienti e
sempre meno uomini, allenati a sopravvivere al proprio orrore e a maneggiare tecnologie che non
sanno gestire e comprendere, proprio come i loro privilegi.