di Tano Siracusa
foto di Nadya Hope
Forse l’unico cambiamento dopo gli orrori della seconda guerra mondiale conclusasi a Hiroshima e Nagasaki non è il tentativo di risparmiare i civili, ma quello di negare la responsabilità dei massacri indiscriminati che continuano a coinvolgerli in tutte le guerre commbattute dopo il 1945.
Gli scenari delle guerre non sono cambiati. Città completamente distrutte e poi ricostruite, come Dresda allora e adesso Grozny. Città rase al suolo, come Aleppo. Città ucraine sventrate, villaggi distrutti. E profughi. Civili in fuga nelle guerre della ex Iugoslavia, civili massacrati in Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Cecenia, nello Yemen, in tutte le guerre europee e mediorientali prima e dopo l’11 settembre. E adesso a Gaza.
Nella guerra delle immagini, a differenza che nel secondo conflitto mondiale, si tende oggi ad attribuire la responsabiltà delle vittime civili al nemico. Come se l’orrore di Auschwitz e Hiroshima, avesse rovesciato il senso delle immagini delle vittime civili, delle città distrutte, dei vinti umiliati. Non più da mostrare come trofei, ma da nascondere. La regola semmai è mostrare le vittime civili provocate dal nemico o quelle da incolpargli, in un confine a volte incerto fra la realtà e la sua manipolazione. Le eccezioni, come le immagini riprese e diffuse dai macellai di Hamas, al di fuori di un delirio che può anche essere collettivo, appaiono infatti oscene, negando l’umanità delle vittime e dei carnefici.
Sono immagini che esibiscono l’orrore commesso, lo rivendicano, e che rimandano ad altre immagini, a un’altra storia tutta nostra, a un’infamia tutta europea, quella che ha cacciato gli ebrei dall’ Andalusia ormai spagnola alla fine del ‘400, che li ha confinati nei ghetti delle città europee, tenuti d’occhio, oltraggiati, facili capri espiatori in caso di epidemie e altri disastri, e infine, a milioni, li ha trascinati nei campi di sterminio nazisti. Tutta storia europea, passato europeo che non riesce a passare. Gli ebrei cacciati dai territori spagnoli, perseguitati nell’Europa cristiana, hanno vissuto pacificamente per secoli nelle città marocchine o nei territori dell’impero ottomano.
Di sicuro le immagini dei bombardamenti e della invasione di Gaza non aiutano i tanti cittadini israeliani, ebrei e e palestinesi, credenti o laici, che da decenni si battono per una soluzione pacifica e negoziata fra i due Stati.
“I palestinesi sono il peccato originale di Israele, perché nel 1896, quando Theodore Herzl, l’ideatore del sionismo, coniò lo slogan ‘un popolo senza una terra va a una terra senza un popolo’, su quella terra un popolo c’era già, gli arabi”. Sono parole di Shimon Peres, protagonista degli accordi di Oslo, che formulano una delle premesse che in questi giorni andrebbero evocate per orientarsi nel flusso atroce delle immagini e di una storia tragica per entrambi i popoli. Di sicuro l’equivalenza Netanyahu – stato d’Israele – popolo ebraico è simmetrica ed egualmente insensata di quella Hamas – governo Palestinese – popolo palestinese.
I palestinesi subiscono adesso una ritorsione atroce, riflesso speculare e ingigantito dell’orrore scatenato il 7 ottobre. E non sarà facile colmare il fossato di odio che si è approfondito fra i due popoli.
Forse l’Europa che sta a guardare o che scende in piazza, che si schiera sui social, dovrebbe sostenere chi a Gerusalemme si oppone a Netanyahu, e chi a Gaza subisce e contrasta il comando di Hamas o, a Ramallah, di un’Autorità Palestinese di fatto esautorata.
Che Israele non debba esistere o che l “Entità Palestinese” debba venire annientata, questo reciproco mancato riconoscimento, è presente nella strategia di Hamas e di parte della estrema destra israeliana. Non è certamente ciò che vogliono tutti i palestinesi e tutti gli israeliani.
Circola nelle nostre manifestazioni la tendenza a semmplificare una complicata e tragica storia di conflitti che ha origini remote, nel X secolo a.C.. Una storia, se si considera quella recente, che cambia di segno se fatta iniziare, ad esempio, dalla Nakba palestinese o dalla Shoah ebraica. Nelle nostre piazze la storia comincia quasi sempre nel ’48 con la Nakba, la “catastrofe” palestinese, l’esodo forzato di 700 mila palestinesi. Alcuni dei quali conservano ancora le chiavi delle loro case.
È andata così anche durante la manifestazione ad Agrigento, dove erano presenti molti cattolici, molti giovani, bambini, qualche immigrato, dove il riferimento anche alle “vittime israeliane” è stato contrastato e criticato fra gli stessi promotori, ma dove hanno anche cantato “La guerra di Piero”, da sempre un inno antimilitarista, ascoltato un poeta palestinese. Sarebbe stato bello e utile leggere anche il testo di un poeta o scrittore israeliano, fra quelli che si sono battuti tutta la vita per le ragioni anche dei palestinesi. Per esempio una pagina di Grossman o di Yehoshua. O di Amos Oz, del suo terrore da bambino durante la prima guerra nel ’48, quando una coalizione di Stati arabi, Egitto, Siria, Libano, Iraq e Giordania, aveva attaccato lo Stato di Israele appena costituito. Un terrore che precede di poco quello dei palestinesi cacciati dal loro territorio, che divide ebrei e palestimesi e che li unisce da quando, quasi un secolo fa, per la prima volta un colono ebreo ha ucciso un palestinese, o viceversa, innescando l’automatismo delle vendette fino alle prime stragi del 1936.
Adesso la decisione di Netanyahu di sacrificare migliaia di civili per uccidere un centinaio di terroristi oltre che disumana appare strategicamente cieca, come la pretesa di governare Gaza quando sarà ormai un cumulo di macerie e la maggioranza dei palestinesi abiterà altri inferni in Libano, in Egitto, in Giordania, dove non li vogliono. Difficilmente d’altra parte Netanyahu sopravviverà politicamente alla guerra di sterminio che ha scatenato: mai come adesso l’isolamento internazionale di Israele era stato così esteso e trasversale, così contrastato il rapporto con gli Stati Uniti, così netta e ripetuta la condanna di un segretario generale dell’ONU.
Per noi in Italia, in Europa, schierarci è facile, e semplificare è una tentazione. Ma per chi a Gaza e a Gerusalemme si schiera contro l’automatismo dell’ ‘occhio per occhio’ di chi comanda, della violenza e del terrore di massa come soluzione del conflitto, è oggi molto meno facile. Loro non hanno bandiere da sventolare in questi giorni, nè quella di Hamas nè quella di Israele. Possono solo dire, come hanno fatto alcuni intellettuali ebrei negli Stati Uniti: “Non a nome mio”.
Sono loro i combattenti che le piazze europee dovrebbero sostenere. Quelli che più di tutti possono cambiare dall’interno il corso degli eventi. Fra di loro qualcuno notava che ottanta anni dopo i campi di sterminio nazisti il popolo ebraico e quello tedesco sono oggi amici.