di Renato Viviani
“Un giorno qualunque un uccello si posa sulla finestra di una cella e propone al prigioniero che la occupa un accordo : tu porta la matita, io porto le storie.”
Mohammad Sabaaneh
Nablus
Settembre 2023
‘Resistere per restare’ e ‘apartheid’ sono le parole che più volte ho sentito ripetere in Palestina perché nella vita quotidiana il popolo palestinese resiste anche nelle cose più semplici. Respirando resiste, camminando chiede libertà, leggendo e parlando chiede giustizia e autodeterminazione.
Il muro
Il muro, alto, grigio mi sovrasta con le torrette e il filo spinato. Siamo a Betlemme. Con me c’è Baha un sociologo palestinese tra i fondatori di To Be There, una associazione culturale nata nel 2013 a Beit Sahour con lo scopo di informare, educare, sensibilizzare e accompagnare le persone che, per qualsiasi ragione, si trovino in Palestina. Dall’altra parte del muro c’è la tomba di Rachele. Un tempo questo luogo era accessibile ai credenti delle tre religioni che hanno gli stessi patriarchi, ma ora non più. “La narrazione ufficiale è che i palestinesi sono terroristi”, dice Baha, “lo stato di Israele vorrebbe che il popolo palestinese cessasse la lotta armata, ma intanto prosegue la confisca delle terre, la costruzione di nuovi insediamenti illegali, l’allungamento del muro, incrementando la suddivisione della Palestina in un arcipelago di differenti realtà amministrative. Resistere all’oppressione è una volontà legittima, resistere per restare”.
La gomma
Ad una ventina di chilometri da Gerusalemme, in direzione del Mar Morto, c’è la comunità beduina Jahalin di Khan al Ahmar. Siamo in un’area C della Cisgiordania. La zona è arida, le colline appaiono brulle e semi desertiche. Aid davanti ad un caffè, parla di come le comunità beduine tra il 1948 e 1952, durante la nakba, si sono installate in queste zone. Sulla sommità delle colline attorno, sono visibili due dei maggiori insediamenti israeliani: Ma’ale Adumin e Kfar Adumin. Sembrano delle fortezze medievali circondate da un alto muro e protette da posti di controllo.
“Su tutte le nostre comunità pende l’ordine di sgombero”, dice Aid, “le intimidazioni israeliane sono molto frequenti. Il loro obiettivo è rendere la vita nel villaggio sempre più difficile, spaventano i bambini in modo che le famiglie se ne vadano spontaneamente, ma noi resistiamo e restiamo”. Questa comunità conta duecento abitanti ed è la più importante di tutte le piccole comunità della zona. Qui c’è la Scuola di Gomma. Costruita nel 2009, grazie alla cooperazione di varie organizzazioni internazionali. Per superare il divieto imposto ai palestinesi di costruire in muratura in quell’area, venne deciso di usare materiali semplici, reperibili e a costo zero come i vecchi pneumatici riempiti di terra. E’ una scuola primaria, frequentata da oltre 200 bambini delle comunità beduine vicine e un asilo per bambini fino a cinque anni. Grazie al faro mediatico acceso su questa storia l’abbattimento della scuola è stato rinviato più volte, ma è ancora previsto. L’allontanamento dei palestinesi da questa area è fondamentale per la creazione di un corridoio che divida in due la Cisgiordania e disconnetta e isoli sempre più le comunità palestinesi.
La Perseveranza At Tuwani è un villaggio palestinese abitato da pastori e agricoltori sulle colline a sud di Hebron siamo in Area C, termine che secondo gli accordi di Oslo prevede il controllo civile e militare israeliano. E’ l’inizio del deserto del Negev, la zona arida consente solo un agricoltura eroica. Le colline sono brulle, si vedono poche piante d’ulivo, di vite e fichi d’india. Qui siamo vicini all’area militare 918, una Firing Area cioè di addestramento militare israeliano. All’interno di questo territorio è tuttavia permesso l’accesso ai coloni israeliani che abitano ben 32 insediamenti. Sami, tra i fondatori di Youth of Sumud (“La gioventù della perseveranza”), ci accoglie davanti ad una palazzina con la facciata decorata da un bell’ albero dal tronco rugoso i cui rami sono formati da tanti corpi di persone. Ci dice: “L’associazione nasce nel 2017 ed è un progetto di resistenza non violenta all’occupazione delle terre e alla loro evacuazione forzata, per contrastare l’apartheid portata avanti dagli israeliani. Abbiamo risistemato le grotte naturali, di cui il territorio è pieno, che un tempo erano abitate dai nostri nonni, che ora servono nuovamente come abitazioni e anche come luogo di ritrovo dell’associazione. Questo è un modo per evitare che l’area sia nuovamente sgomberata. Tornare nelle grotte, renderle nuovamente abitabili, vuol dire non solo riappropriarsi delle terre, ma anche della propria identità e cultura. At-tuwani ha poco più di trecento abitanti ed è l’unico villaggio ad avere una scuola elementare. La strada, che dagli altri villaggi porta alla scuola, pur essendo pubblica, non viene utilizzata dai bambini perché passa a ridosso di alcuni insediamenti israeliani e i coloni spesso li attaccano e li maltrattano. I bambini sono così costretti ad utilizzare sentieri più lunghi e faticosi. Noi dell’associazione spesso accompagniamo i bambini e cerchiamo di documentare tutto quanto succede con foto e video.“
La memoria
Lifta è quello che tecnicamente si definisce un villaggio depopolato. È in una verde valle a poche centinaia di metri da un insediamento residenziale israeliano e a meno di dieci minuti di bus dal centro Gerusalemme. Fino a 1948 era un grosso borgo con belle case in pietra, molte ancora in piedi, fonti d’acqua, orti e attività commerciali poi l’occupazione israeliana ed i coloni con la politica della violenza e delle uccisioni hanno portato ad un lento spopolamento del villaggio che è rimasto abitato fino agli anni settanta. A Lifta ogni anno, il 30 di marzo, sopravvissuti e discendenti si riuniscono per ricordare genitori, parenti e amici. Mentre mi aggiro per i sentieri e tra le case, molte ancora in buono stato, osservo che a Lifta la terra doveva essere fertile, nei terrazzamenti ci sono ancora piante, fiori, alberi. Tutto sembra tranquillo, i rumori della città sono lontani, ma grandi matasse di filo spinato mi ricordano il presente. Poi incontro Amal, una signora palestinese assieme al marito, viene a Lifta quasi ogni mese, lei è nata qui e stanno raccogliendo fichi d’india da piante messe da suo nonno, siamo in quello che una volta era l’orto di casa. Il suo volto, raccolto dalla hijab chiara, è dolce e si commuove ricordando la sua storia “ la memoria è sempre presente nei nostri cuori, abbiamo diritto al ritorno”.
L’olivo
Una mezzora dopo Gerico, su una collinetta, di fronte all’insediamento di Hamra c’è l’accampamento dove vive la famiglia di Ayel. E’ una comunità beduina costituita da solo un paio di tende, un paio di piccole costruzioni in muratura, la stalla per le capre e, l’orto circondato da bellissime piante di ulivo. Sotto la tenda ci accolgono Ayel e la moglie. Con loro vive anche il figlio Mahamed con la famiglia. Ayel è qui dal 1969, ha più di ottant’anni. La sua storia è una storia di lotta e resistenza. La prima volta che gli hanno distrutto tutto è stato nel 1996, e ancora tre volte nel corso degli anni, ogni volta sono restati e hanno ricostruito. Adesso vivono con l’ordinanza di sgombero e demolizione. Nel 2021, dopo l’ennesima provocazione, ha issato sul suo terreno la bandiera palestinese. Al soldato armato che gli chiedeva cosa ci facessero lì quelle bandiere, ha risposto: ”Io sono qui da prima dei trattati di Oslo, quindi cosa ci fate voi qui?” Ayel è in possesso dei documenti di proprietà della sua terra e quindi, dopo ripetuti tentativi di sgombero non riusciti, hanno cercato di comprarlo offrendogli ben due milioni di dollari. Con molto orgoglio mi ripete la sua risposta: “I vostri due milioni di dollari non valgono un ramo del mio olivo”.
Nonostante che l’implacabile campagna di repressione israeliana sia sempre più violenta, mai come negli ultimi anni la capacità di resistenza non solo é sopravvissuta allo sterminio ma ha continuato a crescere e a diffondersi. Resistere per restare.
Campo profughi Aida, Betlemme
Hebron, città vecchia