di Tano Siracusa
particolare da Giuditta e Oloferne di Caravaggio
Il 7 ottobre uomini di Hamas hanno ucciso più di 1200 civili israeliani facendo scempio dei loro corpi anche dopo averli uccisi, hanno filmato il massacro e lo hanno reso pubblico come un trofeo.
Non è una novità. La spettacolarizzazione di un’atrocità, quella ad esempio della decapitazione dei prigionieri dell’ISIS, che provoca orrore all’interno di un particolare contesto di riferimenti culturali, religiosi e morali, può entusiasmare le folle nel contesto di riferimento dei massacratori.
E’ stato così anche dopo la carneficina del 7 ottobre. Sbigottimento e orrore in quasi tutto il mondo, ma non in alcune capitali dei paese arabi e a Teheran, mentre diverse sono state le reazioni in Cisgiordania fra i coloni ebrei e i Palestinesi, che vivono ingabbiati in quella che dovrebbe essere ciò che rimane della loro terra, dove ormai si spara da giorni e tutti hanno paura di tutti.
Esibire le vittime nemiche non è una novità neppure in Europa, anche al di fuori degli eccessi religiosi. Le decapitazioni durante il Terrore giacobino in nome della dea Ragione non venivano nascoste, costituivano al contrario uno spettacolo pubblico.
Eppure, soprattutto dopo l’immane disastro della seconda guerra mondiale, dopo i filmati sui campi di sterminio nazisti e su Hiroshima, è come se una nuova convenzione fosse maturata fra i belligeranti, come una presa d’atto di un diverso, prevalente paradigma etico, un limite all’oltraggio anche mediatico delle vittime, un nuovo senso comune che rendeva non conveniente mostrare come un trofeo le teste mozzate. Si avvertiva forse che il nuovo mezzo televisivo, formidabile strumento di informazione e propaganda, poteva anche essere pericoloso, che le vittime civili delle guerre e delle guerriglie, dei massacri continuati dopo il ’45, il loro uso mediatico, tornava a offendere un antico, sacro senso di ciò che è umano, riemerso in un mondo sulla soglia della catastrofe nucleare.
Già durante la guerra in Vietnam, le immagini televisive delle vittime vietnamite o le fotografie dei reporter, hanno contribuito ad alimentare un’opinione pubblica ostile all’intervento americano e alla fine alla sconfitta statunitense. Naturalmente le guerre e i massacri sono continuati in tutti i continenti, esattamente come prima se non per la loro accresciuta precisione ed efficacia, per le nuove tecnologie usate, ma con le stesse modalità, coinvolgendo i civili, radendo al suolo le città, provocando milioni di profughi.
Da allora, dal Vietnam, i giornalisti si cerca di tenerli alla larga dai teatri di guerra (già dalla prima guerra in Iraq), si cerca di nascondere i propri misfatti e a documentare al contrario quelli dei nemici. Si preferisce mostrare lo strazio delle proprie vittime, non quello delle vittime civili del nemico.
Non è stato così il 7 ottobre, e il cambio di paradigma nell’uso delle immagini separa non i due popoli, ma chi li rappresenta e chi comanda oggi. Fra un mondo che nega l’umanità del nemico e filma l’oltraggio della sua macellazione e un mondo che nega l’umanità del nemico, dei civili inermi, massacrandoli o lasciandoli morire negli ospedali, e che fa però sapere di ‘dispiacersene’.
Da una parte l’orrore, la macellazione, esibita da Hamas, fra sgomento e folle esultanti; dall’altra la devastazione di Gaza mostrata sui nostri media, forse meno oltraggiosa solo per mancanza di immagini (per esempio dei neonati morti per il mancato funzionamento dell’incubatrice) e il commento di un ufficiale israeliano rivolto ai pochi giornalisti autorizzati della stampa internazionale che vedono sfilare migliaia di disperati in fuga verso sud, scudi umani che cercano di sottrarsi alla carneficina: “Non pensiate, dice l’ufficiale israeliano, che questo non ci dispiaccia …”.
Pochi giorni dopo il massacro dei civili israeliani inermi, con un automatismo prevedibile e probabilmente previsto da Hamas, sono incominciati i bombardamenti su Gaza, l’invasione da terra, la fuga verso sud di chi riesce a farlo. Ci sono già stati più di diecimila morti, decine di migliaia di feriti, gli ospedali paralizzati dalla mancanza di acqua, cibo, medicine, elettricità; una tragedia le cui immagini, anche quelle autorizzate dalle autorità israeliane, hanno provocato il pressochè totale isolamento internazionale dello Stato di Israele.
Così riassume Marco Leardi sul Giornale l’intervento di Habermas che lancia un comprensibile allarme contro l’antiebraismo in Europa e giustifica la reazione militare del governo israeliano: “L’eccidio di Hamas e le azioni militari su Gaza – ha in sostanza decretato il pensatore tedesco – non sono paragonabili, perché la reazione israeliana non è uno sterminio intenzionale.”
Impressiona la tragica ipocrisia dell’ultima, paradossale, espressione (del giornalista), che sembra tuttavia esprimere efficacemente il dramma degli israeliani terrorizzati che lasciano il loro governo terrorizzare altri civili. Come se non ci fossero alternative a questo tipo di risposta militare dopo i massacri del 7 ottobre, e comunque come se fosse lecito mettere in conto la morte di decine di migliaia di civili per neutralizzare qualche centinaio di nemici dichiarati.
C’è questa diversità nell’ uso delle immagini, della comunicaizone in generale, fra Hamas e Israele, nell’esibizione ostentata del massacro da una parte e nel tentativo dall’altra di motivare come necessario e privo di alternative il massacro in atto a Gaza.
Nell’ attesa, prevedibilmente molto lunga, di un auspicabile cambio di leadership sia in Israele che a Gaza, le piazze europee invase dalle immagini del disastro dovrebbero riuscire a oltrepassarle, per inoltrarsi nella storia tragica dei due popoli. Ne sappiamo tutti troppo poco. Di come la furia dell’antisemitismo in Europa abbia alla fine incrociato le loro traiettorie in una povera terra ormai dimenticata, una volta ‘promessa’ agli Ebrei da Dio, poi abitata da un altro popolo, prevalentemente di contadini, i palestinesi, che chiamavano Dio con un altro nome. Dovremmo tutti saperne di più: ad esempio su come i coloni sionisti arrivati dopo la prima guerra mondiale, quelli della terza ondata, la terza aliya (che significa ‘ascesa’, ‘salita’), fossero seguaci delle utopie socialiste ottocentesche, giovani colti, idealisti, o sugli iniziali rapporti di collaborazione con i palestinesi nella coltivazione delle terre già ai primi del secolo durante la prima e seconda ‘ondata’, sui numerosi palestinesi che ancora negli anni ’20 lavoravano come salariati nelle aziende dei coloni in un clima di reciproco rispetto. Su come poi la crisi del ’29, l’impoverimento improvviso dei nativi palestinesi, l’ ascesa al potere di Hitler con il conseguente aumento dei coloni ebrei in Palestina, abbiano rapidamente cambiato lo scenario anche in quella terra fino ad allora ai margini della carta geopolitica mediorientale. Fino alla rivolta palestinese del ’36, antisionista a antibritannica, e sulla sua dura repressione, e a quegli ebrei terrorizzati dalla guerra del ’48 che provenivano dai campi di sterminio nazisti.
È presente, anche a sinistra, l’identificazione degli ebrei israeliani e degli ebrei di tutto il mondo con Nethanyau. È la premessa per far circolare la tossicità di un antisemitismo che permane nell’organismo europeo e non solo. La prima aliya viene spinta dai numerosi pogrom che si verificarono a partire dagli anni ’80 del XIX sec. nell’ impero dello zar. Ma è dal XIV sec. che in tutta Europa cristiana si ripetevano i massacri degli ebrei.
Intanto, certo, è giusto riempire le piazze e chiedere l’imnmediato cessate il fuoco, il rilascio dei prigionieri, il soccorso umanitario alle popolazioni, il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza. Anche perchè quelle immagini delle vittime israeliane e palestinesi, la loro storia, ci chiamano in causa, ci riguardano, fanno parte della nostra storia.