di Vito Bianco
Erano passati più di trent’anni dall’ultima volta che avevamo bevuto insieme. Potrei dire che non era cambiato, se si escludono le inevitabili rughe agli angoli della bocca, le guance un po’ più spesse e una specie di nebbia nello sguardo che poteva essere la traccia di un dolore oppure soltanto disincanto, rassegnazione. Ci abbracciamo, un po’ imbarazzati. Lo guardavo e mi sforzavo di far sparire le rughe, quella nebbia, il bianco dei capelli corti con la riga di lato. Ci dicemmo e chiedemmo le solite cose e subito, quasi fosse la prosecuzione di un discorso interrotto cominciammo una discussione sui presocratici. Quanto sarebbe stata diversa, ci chiedevamo, la storia del pensiero occidentale, se non fosse spuntato Socrate, che fosse realmente vissuto o, al contrario, fosse soltanto l’invenzione letteraria di Platone, un autore di grande talento che forse ha sentito il bisogno di distanziare attraverso un eroe di finzione l’audacia e la bizzarria di un pensiero corrosivo e fantastico. Ci eravamo dati appuntamento nella tranquilla piazza rettangolare dominata dalla chiesa barocca con gli insoliti, eterodossi due campanili e da lì, dopo un rapido caffè, ci muovemmo verso il lungo viale del Risorgimento, che percorremmo fino all’imbocco della stretta e tortuosa via san Basilio.
Stavamo ancora parlando di Socrate, e del suo probabile inventore, mi pare, quando entrammo alla Stevenson, una delle poche vere librerie indipendenti sopravvissute all’inarrestabile tramonto, le quali prima resistono con ammirevole tenacia, di solito traslocando dalla storica sede a un locale più ridotto ed economicamente abbordabile e poi chiudono per mancanza di nuovi clienti che sostituiscano i vecchi che muoiono o si ammalano e restano a casa anche in estate. La Stevenson tiene miracolosamente botta, direbbero a Roma, la città dove Matteo e io ci siamo conosciuti, con i suoi scaffali di legno spesso e odoroso carichi di volumi antichi e moderni che, come si diceva una volta, abbracciano l’intero scibile umano e le letterature di tutti e cinque i continenti. “Ma Eraclito, con quelle sue formulazioni paradossali” stava dicendo Matteo, “a te sembra davvero un greco?” “Non parlo dell’ovvia assenza di inquietudine dialettica” continuò “come potremmo chiamarla, che naturalmente condivide con gli altri, penso invece a quello che definirei il carattere iperbolico dei suoi affondi aforistici, affondi che sembrano scaturire da una precisa volontà di tenere i lettori o gli uditori a distanza. O forse c’è solo dell’umorismo sapienziale, uno spirito ludico che gli studiosi non hanno colto o hanno colpevolmente sottovalutato”. Ci eravamo fermati davanti agli scaffali con i testi di critica letteraria: Auerbach, Adorno (Prismi), Benjamin (L’opera d’arte…), la prima edizione del Piacere del testo del sofisticato Roland Barthes. Matteo lo indicò con il pallido indice della mano destra e mormorò: “Ti ricordi?” Fece un sorriso nostalgico ed estrasse dallo scaffale lo smilzo volumetto ancora in buono stato, con una macchiolina marrone slavato che forse era caffè.
“Potrebbe essere la mia” disse Matteo. “Non riesco più a ritrovarla. Devo averla smarrita in uno dei traslochi. Ma i libri, ha detto qualcuno, hanno il loro destino…”. Si portò il libro sotto il naso, sfogliò qualche pagina e lo rimise al suo posto, accanto a un Bachtin di cui non riesco a ricordare il titolo. “Sono convinto che quel qualcuno avesse ragione. Un destino simile a quello umano, e altrettanto imprevedibile” disse un uomo robusto, con gli occhiali neri, all’incirca della mia età, quindi più giovane di Matteo, che aveva superato i cinquantacinque. Era all’altra estremità dello scaffale, a due o tre metri da noi, ma aveva sentitito tutto. Sorridendo venne verso di noi e si presentò. Io e Matteo dicemmo i nostri nomi ed ebbe inizio una lenta chiacchierata sui libri che scompaiono, su quelli che scopriamo quando ne stiamo cercando altri, sulla spiacevole eventualità di scegliere un libro nel momento sbagliato, sull’esperienza di rileggere un romanzo che abbiamo amato a distanza di molto tempo e anche su altro quando il primo e principale argomento di conversazione fu passato al setaccio con esempi, riflessioni e svariate citazioni tratte dalla vita o dall’epistolario di celebri scrittori, tra i quali l’inevitabile Proust.
Era scesa una leggera nebbia, ma noi tre continuammo a camminare costeggiando la parte più larga del fiume, incuranti dell’umidità e della brezza che da una decina di minuti soffiava malevola dall’altra riva, con le casette di legno dei pescatori celesti e verde pallido perfettamente allineate e distanti due metri esatti l’una dall’altra, manie di precisione di gente maniacale e allergica al mondo, pensai, mentre con un orecchio ascoltavo Matteo che citava, non rammento più a che proposito, i tre versi finali di Snow man, una bellissima poesia di Wallace Stevens, e in questa dimenticanza deve entrarci il grido improvviso di un magro ubriaco che avevamo incrociato poco prima impegnato in un rabbioso monologo contro un tal Federico Vigogna, un tempo amico fraterno del nostro povero alcolista e in seguito passato nella schiera di coloro che non meritano pietà.
Io e Umberto (era questo il nome dell’uomo conosciuto in libreria) accompagnammo Matteo al suo albergo di via Luigi Veronelli e una quindicina di minuti dopo anche noi ci concedammo, ciascuno diretto alla rispettiva fermata di autobus, 25 il mio, 32 il suo. “Non dimenticare di inviarmi il tuo romanzo, Vittorio” furono le sue ultime parole, che pronunciò quando ormai aveva fatto i primi passi, voltandosi di colpo, accompagnandole con il gesto dell’indice puntato contro di me che mi ricordò quello di Matteo davanti allo scaffale che richiamava la mia attenzione sul dorso del saggio di Barthes. Glielo mandai l’indomani, senza pensarci. Avrei dovuto? Sì, avrei dovuto. Cosa sapevo di Umberto, e cosa so adesso, due mesi dopo i fatti? Poco. Quasi nulla. Sapevo che era sposato da dodici anni con una traduttrice e che insegnava in un liceo. E che aveva studiato a Parigi. Mi aveva chiesto se scrivevo e io gli avevo detto la verità, che scrivevo e che avevo finito da qualche mese un romanzo “non troppo lungo”, avevo specificato. Lui si era subito mostrato interessato, mi aveva chiesto di cosa parlasse e il titolo. “È la storia raccontata per frammenti” riassunsi “di un uomo ancora giovane che un giorno comincia a prendere coscienza che quasi tutta la sua vita fino a quel momento era stata segnata dalla quasi totale mancanza di sincerità, dalla simulazione, e così si mette in testa di rimediare e recuperare quello che crede essere la sua vera personalità, o il vero io, come banalmente lui stesso dice, e per farlo comincia a cercare le persone con le quali ha avuto a che fare, per scusarsi della slealtà e per chiedere loro di aiutarlo a ritrovare questo sé autentico”. “Molto interessante” aveva commentato Umberto “fa venire in mente Pirandello. Ma potrebbe essere lo spunto per un racconto di Gogol. E di sicuro tu avrai trovato una cifra particolare per descrivere lo smarrimento del personaggio. Non hai detto il titolo…” “Il labirinto” dissi. Il giorno dopo, come ho detto, inviai una mail di due righe con allegato il mio romanzo. “Ecco la mia ultima artistica fatica” scrivevo con un meditato tono leggero che aveva lo scopo di nascondere dietro l’autoironia il timore del giudizio “con la quale spero di conquistarmi un angolino nella storia periferica della letteratura italiana. Buona lettura”. Umberto accolse la spedizione con il silenzio. Mi sarei accontentato di un ordinario “Ricevuto, grazie”, invece anche lui si accodava al malcostume generale. Ci rimasi male, lo ammetto. Giulia dice che sono troppo suscettibile, che è inutile e dannnoso per la salute aspettarsi dagli altri la correttezza formale, o, peggio, la disponibilità e la gentilezza.
Passò una settimana senza notizie di Umberto. Pensai di scrivergli qualche parola vaga per saggiare la sua reazione, ma dopo averci rimuginato un paio di giorni decisi di aspettare ancora una settimana. Gli scrissi dieci giorni dopo: come stai, che fai di bello, a scuola tutto bene? Poi, staccato, come se mi fosse venuto in mente in quel momento: “A proposito (incongruo: a proposito di cosa?), che mi dici del mio romanzetto?” “Tutto bene carissimo, grazie. Ma di quale romanzo parli?” mi rispose quasi a tambur battente. “Del mio” digitai sulla tastiera del telefono, con il pollice della mano destra che tremava leggermente, “del Labirinto, ricorderai che ne abbiamo parlato la sera che ci siamo conosciuti; te l’ho mandato perché avevi manifestato il desiderio di leggerlo; hai detto, testualmente, ‘mi piacerebbe molto leggerlo, se a te non dispiace’. La sua risposta si fece attendere dieci giorni. Era una faccina con l’espressione del massimo sbalordimento immaginabile, lo stesso che provavo io mentre la guardavo senza riuscire a smettere di guardarla, una faccina eternamente immobilizzata in un buffo e irridente stupore infantile. Mi chiedevo che rapporto poteva esserci tra qull’emoticon (non so se la parola è corretta) e Umberto, l’Umberto affabile, ironico e sorridente che avevo conosciuto alla libreria Stevenson. Mi rispondevo che non poteva esserci nessun rapporto, ma che doveva esserci con un altro Umberto celato dietro quello che avevo conosciuto e con il quale avevo piacevolmente conversato. Mi consultai con Giulia e lei mi consigliò di lasciar perdere: “È un matto” disse “ce ne sono tanti in giro. Un matto che sembra normale”. Accolsi il suo consiglio; d’altra parte, cos’altro avrei potuto fare?
Non ci sarebbe stato più nulla da dire se tre mesi dopo, ad aprile, non avessi visto sull’espositore accanto alla cassa della libreria Rizzoli un libro con un titolo che attirò subito la mia attenzione: Il labirinto. Ah, credo che pensai, che coincidenza, lo stesso titolo del mio libro. E chissà quanti lo avranno usato negli ultimi duecento anni. Dovrei fare una ricerca per scoprirlo. Sopra il titolo il c’era il nome dell’autore: Umberto Cartesiano. Presi una copia e lessi l’inizio: “Avevo suonato male quella sera, anche se i trecentocinquanta ascoltatori non se ne erano, almeno a giudicare dal volume e dalla durata degli applausi. In particolare, avevo staccato un tempo troppo veloce nel finale della Sonata numero sette di Gian Luigi Gonfalonieri, appiattendo gli staccati espressivi che precedono il contrappunto conclusivo. Qualcosa mi aveva fatto perdere la concentrazione…”
Erano, una dietro l’altra, le parole con cui si apriva il mio racconto. Sfogliai a caso altre pagine del libro, pagina 12, 16, 27, l’attacco del secondo capitolo…: ogni frase che leggevo mi riportava al mio romanzo. Tornai al frontespizio, lo girai e sulla pagina di destra che precedeva la prima del testo vidi la dedica: “a Giulia”. Sentii un brivido di freddo; e subito dopo una specie di agitata impazienza, come se mi fossi ricordato d’improvviso di aver trascurato di fare una cosa importante e sperassi di poterla ancora fare ed evitare così le gravi conseguenze che la dimenticanza avrebbe di sicuro provocato. Quello che volevo fare era chiarire l’equivoco, cercare un commesso o il direttore della libreria per dire che c’era stato in errore, che Umberto Cartesiano non poteva essere l’autore del Labirinto, perché l’autore ero io, Vittorio Spinosa, potevo dimostrarlo…Erano solo pensieri, ovviamente, ma così netti e interiormente risonanti da darmi l’illusione che avrei potuto passare all’azione e ristabilire la verità, cancellando con un dito il nome di Umberto Cartesiano dalla copertina del libro che avevo in mano per poi scrivere il mio.
Pagai il libro alla cassa vicino all’uscita e tornai a casa con il tram verde 31.
Nella stessa libreria, qualche settimana dopo, si tenne una presentazione del Labirinto. Arrivai con una ventina di minuti di ritardo. Dietro il tavolo coperto da un panno azzurro, seduta accanto a Umberto, c’era una bella signora di mezz’età con biondi capelli voluminosi e pendenti rosso fuoco. Lui si era tolto la barba con la quale l’avevo conosciuto, aveva i capelli più lunghi e meno bianchi di come me li ricordavo e indossava una giacca verde dal cui taschino fuoriusciva una fazzolettino rosa scuro; la camicia era grigia, la cravatta color salmone. Annuiva spesso con un sottile sorriso che sembrava inventato apposta per l’occasione. “Il protagonista e narratore è un musicista e la musica è molto presente nel racconto” disse la signora con i pendenti alle orecchie, “quindi è inevitabile chiederti se hai avuto un’educazione musicale, se suoni uno strumento, o magari proprio il pianoforte come Arturo nel romanzo…”
“Certo, Silvia, la domanda era inevitabile” rispose Umberto “e molto probabilmente la stessa curiosità l’avranno avuta i lettori del mio libro. Sì, ho avuto quella che potremmo chiamare una buona educazione musicale, ho cominciato a studiare pianoforte a sette anni con un insegnante privato e a diciott’anni mi sono persino iscritto al conservatorio con l’idea sconsiderata di diventare un concertista. Sognavo di percorrere le orme di Pollini, di Arrau…ma erano per l’appunto sogni. L’incontro col maestro Ciccolini mi fece capire che non avevo il talento necessario, e nemmeno la determinazione, altrettanto necessaria; così presi la via delle lettere, ma la musica ha continuato ad avere una parte importante nella mia vita…” “e nella tua scrittura” gli fece eco Silvia, sollevando dal tavolo la sua copia del romanzo e agitandola a beneficio del pubblico, come a comprovare l’affermazione con un gesto che voleva dire “carta canta”.
Appoggiato all’asse verticale da cui partivano le lunghe mensole della sezione Filosofia, lontana dal azzurro la fila più laterale delle sedie di plastica rosse, fissavo la faccia di Umberto quasi senza un battere di ciglia, chiedendomi se avesse notato la mia presenza in sala. Silvia fece un’ultima domanda e chiese se qualcuno tra il pubblico voleva intervenire. Cadde il tipico silenzio imbarazzato di queste situazioni, quando i più timidi abbassano la testa e guardano i piedi dei vicini e gli estroversi ritardano il momento di alzare la mano per tenere viva ancora per un un’interminabile minuto la suspence. Una mano si levò, un commesso portò un microfono e una ragazza con i capelli viola e l’anello al naso disse che era curiosa di sapere quanto tempo c’era voluto per scrivere il romanzo e quali erano gli autori dai quali sentiva di essere stato influenzato. Umberto si schiarì la voce, bevve un sorso d’acqua da un bicchiere pieno sino all’orlo e disse: “Un anno e mezzo, ma non scrivevo tutti i giorni. Quanto all’influenza, non saprei, potrei dire Nabokov e Pirandello, ma è soltanto la mia percezione, parziale e soggettiva. Un critico sarebbe certamente più preciso”. Non ci furono altre domande, e così la signora elegante ringraziò Umberto e i partecipanti e dichiarò finita quella che definì una “bella e stimolante serata”.
Mentre un arrossato e compiaciuto Cartesiani firmava qualche copia del romanzo che non aveva scritto, io guadagnavo l’uscita deciso ad affrontare l’uomo che mi aveva derubato. Fuori, fermo sul marciapiede opposto alla vetrina della libreria, aspettavo fumando di vederlo uscire, meglio se da solo. Avevo appena buttato in un contenitore la cicca spenta della sigaretta ed eccolo davanti alla grande porta di vetro, con la signora e un trentenne biondo e robusto. I tre si scambiarono le ultime frasi di circostanza e si salutarono con una stretta di mano: la donna e il ragazzo attraversarono la strada nella mia direzione, Umberto si diresse verso via Torino. Gli tenni dietro a distanza di sicurezza, una ventina di metri dalle sue spalle massicce, senza fare nulla di particolare per evitare che si rendesse conto di essere pedinato e anzi in fondo sperando che si accorgesse di me, che si voltasse, perché arrivasse anche prima del previsto quello che doveva arrivare.
Procedeva con l’andatura di chi non ha nessuna fretta e approfitta della distanza dalla meta per godersi la passeggiata e l’aria che sapeva già di primavera. Io lo seguivo, come dicevo, curandomi poco della discrezione, per quello che ho detto e perché dopo pochi minuti ebbi la quasi certezza che lui avesse avvertito la mia presenza e l’accettasse senza ribellarsi, con forse anche un certo gusto beffardo e provocante; sembrava insomma che si facesse placidamente seguire per meglio irridermi e punzecchiarmi, ricordandomi con quanta divertita facilità era riuscito a impadronirsi del mio lavoro. E a me sembrava di vedere la faccina stupita stampata in arancione sul verde foglia della sua bella giacca di cotone.
A metà circa di via Mora deserta si fermò come se avesse bisogno di riallacciarsi una stringa o si fosse reso conto di aver sbagliato strada. Si era piegato, o così mi era sembrato, per controllare i lacci di una scarpa; ma inaspettatamente si voltò di scatto e notai che sorrideva. Mi ero fermato anch’io, di riflesso, come se ormai i miei movimenti fossero legati a filo doppio ai suoi, simili a due ballerini di tango impegnati in una studiata figurazione. Poi entrambi, in perfetta sincronia, riprendemmo a camminare, stavolta però uno verso l’altro, lui sempre sorridente, io serio, turbato eppure stabile e solido, affamato di risoluzione, di punto conclusivo, con una furia tanto più impellente quanto più mi riusciva di tenerla a bada.
“Hai l’aria di un un innamorato deluso, Vittorio. Io però non posso consolarti, mi dispiace” disse guardandomi negli occhi. “Coraggio, torna a casa, tua moglie a quest’ora avrà già messo in tavola una buona cena”. Un gatto sbucò rapido da sotto la panchina dietro l’ombra di Umberto. Chiusi la mano destra a pugno e colpii dall’alto per spegnere il ghigno insolente su quella faccia che mi sembrava di vedere per la prima volta. Lui fece mezzo passo indietro alzando le braccia e cadde sbattendo la testa contro lo spigolo di ferro della panchina. Rimase a terra supino, a gambe larghe, le dita della mano destra sulla bocca socchiusa. Gli occhi spalancati sembravano chiedere spiegazioni – a me o alla luna quasi piena lassù in cielo – che non avrebbe più potuto ascoltare.
foto di Vito Bianco