di Vto Bianco
C’è una frase di Adorno, in seguito ritrattata – riargomentata – in una pagina di Prismi, se non sbaglio, che è diventata più famosa del suo autore. È quella, molto richiamata, che afferma perentoriamente l’impossibilità di continuare a scrivere poesia dopo Auschwitz. Di parere opposto, Paul Celan comincia a scrivere versi dalla ‘sabbia delle urne’, dalla soglia invalicabile oltre la quale si è annullato il senso dell’essere uomini. Dire parole sull’accadimento più impensabile della lunga storia umana è stata la sfida linguistica prima ancora che poetica dell’autore di Todesfuge, fuga di morte (‘scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti’), che ha scommesso sulla possibilità di riuscire a sfiorare, se non a dire, ciò che è letteralmente indicibile. Perché forse dopo Auschwitz l’unica cosa che si poteva fare era scrivere poesie, per tenere a bada la follia avendo cura di rammentarla a partire dal poco, quasi niente che era rimasto. Ma accanto al problema del dire, del come dire, ne esiste uno analogo che riguarda il mostrare, del se e del come far vedere.
Se il divieto o l’autocensura della parola, anche della parola poetica, a cui allude la frase di Adorno con il suo sottofondo di ammonimento morale (abbiamo l’obbligo di tacere, sembra volerci dire il filosofo ebreo-tedesco) ci tocca e interroga, non meno problematica appare la questione dell’immagine, quelle documentarie girate dai sovietici molte volte sfilata sui piccoli schermi dei televisori domestici, ma pure, e soprattutto quelle delle numerose messe in scena cinematografiche. Lungo e vario e l’elenco dei film che hanno voluto raccontare il tremendum del lager, da Kapò di Gillo Pontecorvo alla Vita è bella, in cui Roberto Benigni sceglie una discutibile e discussa chiave favolistica e in barba alla verità storica cambia la nazionalità dei soldati che per primi arrivarono nel lager polacco, Auschwitz, appunto, situato nel sud del paese, tra Cracovia e Katovice, e ciascuno potrebbe aggiungere alla lista i titoli che meglio ricorda o giudica meglio riusciti.
Pur nella diversità, i titoli citati e gli altri che si potrebbero citare condividono quella che possiamo chiamare la ‘fede nell’ostensione’, ossia la convinzione che sterminio e abiezione possano e debbano essere mostrati, resi evidenti e visibili, e attorno a essi costruire una finzione che produca pathos e identificazione. Se è accaduto, può essere fatto vedere, trasformato in immagini e storie, più o meno inventate, è la sottesa convinzione che anima gli autori, sicuri che non ci sia un modo più efficace di narrare e far sentire allo spettatore lo spaventoso orrore dell’assassinio di massa su scala europea messo in atto dall’esercito nazista nel triennio che va dal 1941 alla fine del ’43, durante il quale i ‘volenterosi carnefici di Hitler’, come li ha chiamati lo storico Goldhanger nella sua dettagliata ricostruzione della filiera del massacro, si sono dedicati con zelo fanatico alla distruzione di milioni di ebrei e di centinaia di migliaia di sinti e omosessuali.
La zona di interesse di Jonathan Glazer, con Christian Friedler e Sandra Hüller, opta invece per un approccio che sta agli antipodi di quello drammatico e ‘convenzionale’ al quale siamo abituati e che inevitabilmente ci aspettiamo sin dal momento in cui cominciano a scorrere i titoli di testa. Glazer sottrae, allude, usa l’ellissi; il suo stile è insistentemente, si potrebbe dire fastidiosamente distaccato, freddo, sottolineato dalla distanza della macchina da presa dai personaggi che sembrano agire e parlare come pesci in un un’acquario. Due ore meno un quarto di teatro della crudeltà, di ‘banalità del male’, direbbe Arendt, se non venisse da pensare, guardando la soave spensieratezza dei coniugi Höss, aristocraticamente alloggiati in una sontuosa villa con giardino a ridosso del campo di concentramento, che il male, soprattutto in quelle quasi fantastiche proporzioni, non è mai banale, e quella che può sembrare indifferenza altro non è che odio al servizio dell’efficienza omicida. Lo schermo grigio dell’inizio col suono-rumore è il simbolo dell’impresa impossibile a cui si accinge l’opera: indicare, almeno indicare, cosa ha significato per il pensiero, per l’arte, per la fede religiosa la macchina di morte allestita nel conglomerato di campi che va sotto il nome di Auschwitz.
Quel grigio, che tornerà, e anche il rosso che si allarga da un primo piano di fiore dello stesso colore, vogliono ricordarci che di fronte a quella parola tutto si spegne e precipita in un ingorgo dove ogni parola, ogni immagine si spegne. Poi spunta, sotto una luce magnifica, trattenuta e diffusa, il giardino fiorito della signora Hedwig, che tiene in braccio il figlio di pochi mesi e gli mostra l’insetto sui petali di un fiore.
È l’ultima ignara creatura nata dalla fertile unione con uno dei responsabili della ‘soluzione finale del problema ebraico’ programmata a Wansee, alle porte di Berlino, il 20 gennaio del ’42.
Hedwig è orgogliosa del suo colorato giardino, peccato per quel brutto muro che presto però verrà nascosto dalle siepi e dagli alberi. Ama così tanto la sua vasta casa e quel paesaggio che quando Rudolf verrà trasferito si rifiuterà di seguirlo. Sono così felici lì i bambini, dice, non possiamo portarli altrove, sradicarli. Ma quel fumo nero, le grida, gli spari? E gli incubi e le insonnie di una delle bambine? Passeranno. Così scorre serena la vita della ariana famiglia Höss, il quale nelle sue memorie stese nel carcere di Norimberga scriverà che la moglie nulla sapeva di quel che accadeva al di là di quel brutto muro.
L”aniconismo calvinista’ (ed ebraico) di Glazer, il suo pudore visivo, sono di una forza impressionante, traumatica; risuona nelle memoria e inquieta la coscienza come non erano riusciti a fare i molti buoni film del passato. A Glazer è bastato fare un passo indietro e mostrare l’al di qua: le gite, le passeggiate, i pranzi, una chiacchierata notturna tra coniugi; Rudolf che detta al telefono lettere di burocratica precisione o che alla vigilia della partenza va a salutare il cavallo e gli dice ti voglio bene; cose minime, ordinarie, comuni, incombenze ineludibili, schiamazzi, qualche mugugno, il cane che va e viene, il sesso con la ragazza ebrea, che scorrono come le ore di terrore nel campo vicino, del quale si può perfino sentire il respiro, che si perde nell’aria profumata di una primavera incantavole.
‘L’atrocità non lascia tracce sulla terra. La natura alza le spalle, e riparte’, pensa Henry Bech, lo scrittore inventato da John Updike, in uno dei capitoli delle sue ironiche e commoventi avventure. E gli uomini, viene da chiedersi, ripartono anche loro? A quanto pare, sì. Ma certe ferite restano aperte per sempre.
immagine dal film