di
Vito Bianco
Il capitolo 29 di Tristi tropici (1955) di Claude Lévi-Strauss (‘Uomini, donne, capi’), uno dei libri più importanti del ventesimo secolo, si conclude con una affermazione memorabile nella quale l’etnologo francese compendia con insuperata chiarezza il suo credo strutturalista o, meglio, la proposta teorica che postula una struttura invariante delle culture umane (semplifico per riassumere): “Non avevo bisogno di rivolgermi alla storia particolare che l’aveva mantenuta in quella condizione elementare o che, più verosimilmente, ve l’aveva ricondotta”, scrive. “Bastava considerare l’esperienza sociologica che si svolgeva sotto i miei occhi. Ma proprio questa mi sfuggiva. Avevo cercato una società ridotta alla sua forma più semplice. Quella dei nambikwara lo era a un punto tale che vi trovai solo degli uomini”.
Non si potrebbe dare, come si vede, un rifiuto più netto della contingenza storica nell’interpretazione di un sistema sociale (in questo caso quello dei nambinkwara del Mato Grosso), poiché al di sotto della storia, di ogni ‘storia particolare’, vuole dirci Lévi-Stauss, c’è sempre l’uomo nella sua eterna e immutabile essenza. Sotto qualunque cielo culturale, e dietro le particolari risposte a identici problemi (la morte, il potere, i legami familiari…), un uomo è sempre riconoscibile in quanto tale. E dunque prima della storia, e prima di una, seppur minima, organizzazione sociale, troviamo l’essere umano, nudo e puro. È una tesi che si è quasi istintivamente portati a sposare per la sua indubbia evidenza di verità sostenuta da molte “prove raccolte sul campo”.
Eppure, nonostante questa supposta evidenza (o forse proprio a causa di essa) si è spinti a domandarsi se è davvero possibile trovare l’uomo prima della sua storia e una società talmente semplice, talmente elementare da farsi invisibile sotto lo sguardo dell’osservatore che si propone di studiarla.
È probabile però che la “storia particolare”, anziché elusa, debba invece venire interrogata, magari per scoprire che le risposte diverse di cui parlavo sopra possono essere lette come la conseguenza di una storia particolare. Per scoprire, forse, che l’uomo, come alcuni hanno affermato è, inevitabilmente il prodotto della sua storia. Per valutare e soppesare, infine, il ruolo del condizionamento storico anche negli ambiti che tendiamo ad escludere perché li pensiamo sospesi e imperturbabili sopra le vicende dei processi storici: per esempio il sesso, o l’amore, o tutto il vasto territorio della sensibilità e dei sentimenti. È quel che suggerisce Jean-Pierre Vernant (e messo in pratica nelle sue indagini genealogiche) in una discussione radiofonica con Jacques Le Goff di molti anni fa poi diventata libro (Dialogo sulla storia, Laterza) quando, parlando di miti, afferma di non essere sicuro “che si possa passare senza grandi precauzioni dai miti greci ai miti africani o amerindi. E non sono nemmeno sicuro che si possa esplorare l’intelligenza umana senza far riferimento all’idea che esistono cambiamenti, soglie, rotture, modificazioni nella logica, nella scienza, nella sensibilità. La psicologia è, dunque, storica”. E poco prima aveva detto: “Ai miei occhi sa di kantismo l’idea che esistano regole ‘a priori’ dell’intelligenza”.
Ma se nemmeno le regole dell’intelligenza si sottraggono alla presa della storia (ci sarebbero quindi modi diversi di essere intelligenti, o criteri diversi per determinare l’intelligenza) come sarà possibile sostenere l’ipotesi di una struttura culturale (mentale) sostanzialmente analoga? E, più radicalmente, come sarà possibile trovare l’uomo nudo e puro, se persino la psicologia ‘è storica’? Per Vernant, ma non solo per lui, non si dànno fenomeni umani fuori della storia; e nulla di umano può essere pensato al di qua della sua particolare apparizione storica, se non si vuole cadere nella vaghezza o nell’anacronismo. Ogni forma umana ha la sua storia, insomma, le uniche forme a priori sono quelle che, kantianamente, permettono di fare esperienza del mondo, il tempo e lo spazio, tutte le altre si producono, mutano e, qualche volta, si dissolvono, per lasciare il posto ad altre, altrettanto determinate e mutevoli.
Ma nella distanza tra i due poli, tra storia e sovrastoria, invarianza e struttura, contingenza e stabilità si apre un terreno neutro in cui è possibile, credo, far giocare le carte dei due approcci epistemologici: per contaminare la struttura con la filologia e per cercare nella storia delle variazioni ciò che di permanente vi si annida. Perché se è vero che l’uomo piange e ride a ogni latitudine e in ogni tempo, è vero anche che pianto e riso si esprimono ogni volta entro una cornice sociale e culturale diversa; così come non bisognerebbe mai dimenticare che, sin dalla notte dei tempi, quell’uomo non è mai stato solo.
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le foto dei nambikwara sono di Lévi-Strauss