di Tano Siracusa
Agrigento
Avevo saputo che non lontano da San Cristobal, in un villaggio di nativi, c’era una piccola chiesa dove si svolgevano degli strani rituali. Mi ero recato una prima volta con un taxi collettivo. All’arrivo piovigginava, un temporale rumoreggiava sotto un cielo di nuvole basse. All’ingresso della chiesa un uomo seduto per terra mi aveva informato che era vietato fotografare. La chiesa era a un’unica navata, nell’oscurità brillavano centinaia di piccole candele accese. Rischiaravano le icone dipinte sulle pareti laterali, affreschi molto naif di numerosi santi e, sul pavimento, decine di persone raccolte a gruppi o da sole che pregavano bevevano Coca Cola e ruttavano. Come in un indecifrabile picnic. Mi ero avvicinato a una donna che aveva accanto una cesta con una gallina. Recitava una lunga preghiera nella sua lingua, non in spagnolo, una cantilena, e alla fine aveva accostato la piccola candela alla testa della gallina, subito dopo le aveva tirato il collo, provocando l’ammirata approvazione di un’altra fedele. Prima o poi sarebbe entrato il sacerdote e avrebbe celebrato la messa.
A San Cristobal la cattedrale era dedicata a Bartolomeo de Las Casas, il gesuita che per primo si era opposto alla furia dei conquistadores contro i nativi. Ma accanto alla grande chiesa ne sorgeva una più piccola, frequentata solo dagli indigeni.
Ero tornato dopo pochi giorni al villaggio. Quella mattina c’era il sole e dentro la chiesa un giovane intratteneva un gruppo di viaggiatori. Era un giovane colto, spiegava i riti che vi si svolgevano, la loro giustificazione teologica, come fossero stati integrati, accolti, assimilati nella pratica cristiana dei fedeli. Una vera lezione, ma appassionata, in uno spagnolo elaborato e perfettamente comprensibile.
Ho ricordato quell’episodio l’estate scorsa, in occasione della processione di San Calogero, il santo nero come molti dei migranti che cercano di raggiungere le nostre coste, il santo elettivo degli agrigentini. Una processione epurata lo scorso anno dalle forme tradizionali della sua espressione, ritenute da sempre eterodosse dalle autorità religiose e adesso pericolose per la pubblica incolumità da quelle civili. Anche se non si sono mai verificati incidenti gravi durante il suo svolgimento.
Quella chiesetta in Chiapas è solo una delle manifestazioni di sincretismo religioso cui ho assistito. Ancora in Messico, ma a Oxaca, una processione appena fuori dalla chiesa si trasformava in una specie di sarabanda carnevalesca. In una cittadina del Guatemala la folla sbandava per l’uscita della processione fra gli ubriachi che dormivano per terra. Ma anche in Tanzania, durante la celebrazione della messa, i canti e le danze come in un happening, e dopo i funerali cattolici, di nascosto, i loro riti funebri tradizionali: solo la pratica della magia nera comportava l’esclusione dalla comunità parrocchiale.
In tutti i popoli evangelizzati dai cattolici persistono ambiti di vasto sincretismo religioso, che hanno permesso alla Chiesa latina, cattolica, di includere pratiche e credenze che fanno parte degli sforzi umani di accedere al sacro e che comunque vengono insidiate e manomesse dai vari contesti della modernità. In tutta la cristianità cattolica, non solo in Sicilia e nel Mezzogiorno d’Italia, sopravvivono espressioni di popolarità religiosa che eccedono i recinti della ritualità ufficiale.
È possibile far scomparire anche in modo traumatico forme e materialità della tradizionale religiosità popolare, mentre è inevitabile la loro lenta, spontanea trasformazione. Molti studiosi, credenti e non credenti, lavorano infatti per sottrarre all’oblio ciò che ne rimane.
Oaxaca, Messico
Sarebbe perciò auspicabile che le autorità religiose agrigentine si interrogassero su quanta autenticità di fede sia presente nella processione di San Calogero, nelle sue manifestazioni tradizionali, nel lancio del pane, nell’abbraccio al santo, nella fisicità del rapporto fra il fedele e il simulacro, nel tumulto festoso della folla.
Mons. De Gregorio, Settimio Biondi, Giandomenico Vivacqua, molti altri studiosi hanno sondato le profondità storiche, le arcaiche risonanze antropologiche, la ricchezza simbolica della sua concreta espressione. E di sicuro molti portatori, molti fedeli, hanno subìto i divieti imposti lo scorso anno. Forse sarebbe utile una riflessione e anche un confronto sul rischio di perdere, con quella processione, un importante patrimonio di fede oltreché di autentica cultura popolare.
Il picnic di riti e preghiere sarebbe stato interrotto dalla celebrazione della messa, poi sarebbe ripreso. Era stato incluso nella chiesa, nella comunità dei cristiani. Non è stato così per il lancio del pane a san Calò, potrebbe non esserlo più dopo lo scorso anno per l’intera manifestazione tradizionale della fede popolare durante la processione.
Bisognerebbe rifletterci.