di Tano Siracusa
Lo sguardo attraverso il mirino di una camera fotografica possiede un potere che viene avvertito solitamente come minaccioso da chi viene inquadrato. Oscuramente forse anche chi guarda attraverso il mirino può essere consapevole della minaccia che esercita, del suo potere di degradare un soggetto a oggetto, uno sguardo presente in uno sguardo passato, disattivato, che diventerà un oggetto, una semplice fotografia, un pezzo di carta. Lo temeva Balzac quello sguardo. Lo temono dove si ha paura dei doppi e si pratica la magia nera: quella copia bidimensionale, immagine derisoria nella sua impotenza, fissata nell’irrealtà di un istante che non passa, può diventare un sostituto dell’originale.
Da una parte uno sguardo cieco, che non vede più, in balìa di sguardi sconosciuti, dall’altra uno sguardo che domina, comanda.
Quello sguardo lo teme anche chiunque abbia compreso di non potersi riconoscere in un ritratto fotografico, nella sua pretesa di rappresentarlo, colto e fissato in un istante che non gli può corrispondere. Avrebbe sempre ragione nel sostenere di essere altro, poichè la realtà, il tempo dell’originale, l’incessante, inevitabile divenire, eccedono e oltrepassano la disanimata spazialità della copia.
Quello degli sguardi sembra un linguaggio immediato e universale, una perlustrazione dell’altro che ci osserva, una misurazione dei rispettivi confini, dei loro bordi. La voglia o il timore di possibili sconfinamenti, la ricerca di un margine di reciprocità o di un pieno e reciproco riconoscimento. Oppure una volontà di comando, una pretesa di sottomissione. Come se l’esperienza umana dello sguardo includesse un livello di comunicazione non ancora normato dalle convenzioni sociali, dal loro orizzonte di senso. La simpatia, l’ostilità, la diffidenza, l’attrazione, la paura, il desiderio, l’indifferenza, il sospetto della simulazione, la volontà di dominio: un intero spettro di di messaggi anche non intenzionali viaggiano lungo gli sguardi che si incrociano in qualunque angolo del mondo. Il conflitto, la volontà di potenza, sembrano ovunque una possibilità.
Eppure il linguaggio degli sguardi viene declinato diversamente nei diversi contesti storici e culturali. E chi fotografa gode di un osservatorio privilegiato.
Gli sguardi degli affamati o dei servitori nell’India degli anni ’30 del ‘900 descritti da Levi Strauss ne I tristi tropici, ad esempio, quel tipo di supplica (che può facilmente rimanere impigliato in una foto), non sono replicabili se non in quel contesto. Quel riconoscimento delle distanze e gerarchie sociali, della loro legittimità, quella resa dei marginali e miserabili agli sguardi degli altri, dei dominatori europei, vengono oggi facilmente ribaltati nelle periferie delle metropoli occidentali, dove lo ’straniero’ deve stare molto attento a incrociare gli sguardi di chi le abita. Soprattutto se manifesta l’intenzione di fotografare.
Il linguaggio degli sguardi, la loro decifrazione, le modalità del loro incrociarsi variano nello spazio e nel tempo, a maggior ragione se possono venire duplicati dagli scatti fotografici.
In Guatemala anni fa dei viaggiatori giapponesi, sorpresi a fotografare dei bambini per strada, sono stati linciati. A Copenaghen si possono vedere interni di pianiterra, magari un po’ appartati, dalle pareti esterne di vetro, trasparenti, e pare che nessuno guardi ‘dentro’: per discrezione. Neppure, per mimetismo, i fotografi di passaggio. I siciliani, che costruiscono sugli altri ‘forme’ non corrispondenti alla ‘vita’, proprio come le fotografie, descrivono in Pirandello un paesaggio umano di doppi, di teatralità, difficilmente comprensibile fuori dalla sua isola.
Lo sguardo dentro il mirino della camera fotografica, la sua amplificazione, sembra amplificare nelle repliche i differenti schemi del guardarsi, che non poco rivelano delle spefiche forme dello ‘stare con gli altri’.
Foto di Tano Siracusa