di Vito Bianco

Mia sorella Faustina, più giovane (o meno vecchia) di me di qualche anno, che nell’adolescenza è stata una sua grande ammiratrice, sino al punto da tappezzare le pareti della sua stanza con gigantografie tratte dalle scene dei suoi film più famosi, sostiene ancora oggi che il nostro paese, noto soprattutto per i ballerini e gli insuperabili trapezisti, non ha mai fatto nascere un’attrice più brava e versatile, capace di passare con perfetta disinvoltura dai drammi cupi di Neiro Zimikis alle commedie sofisticate di Barney Newman, e da queste all’intrattenimento quasi comico delle ultime produzioni di Francisco Padilla, spensierate parodie del filone melodrammatico molto popolare da noi all’incirca tre decenni fa.

Non so se Faustina abbia ragione, se davvero è stata la più grande e versatile delle nostre attrici, ma di certo è stata la più sfuggente e segreta e inafferrabile; apparentemente alla portata di chiunque volesse stringerle la mano o chiederle un autografo, in realtà lontana, imperscrutabile, al riparo dietro le maschere dei personaggi ai quali ha prestato corpo e voce, eppure a tratti affiorante da uno spiraglio della finzione, come se il nocciolo autentico della sua impaziente e nascosta personalità avesse bisogno, per mostrarsi anche solo per un istante del conforto che assicura il sapersi nei panni di qualcuno che non esiste.
Si chiamava Amelia Roy, ma è passata alla storia del cinema con il nome d’arte di Alma Luz, e per almeno quindici anni è stata l’attrice più sognata, inseguita e pagata della sua generazione, che è stata anche la mia.
A molti di voi il suo nome non dirà nulla; qualcuno l’avrà appena sentita nominare; ma quelli della mia età non possono averla dimenticata, e tra loro non devono essere pochi quelli che hanno visto più  di una volta tutte o almeno qualcuna delle sue memorabili interpretazioni. Amelia era nata in una famiglia della piccola borghesia provinciale, impiegati, maestri e burocrati di medio calibro, con un nonno materno che prima della grande guerra europea era stato console in Francia. Era l’ultima di tre figli. Prima di lei erano nati Rafael e Hilda, con i quali si tenne in contatto fino a quando la sua presunta malattia non la costrinse a chiudersi in un silenzio che nessuno fu mai capace di interrompere.

Alla Escuela de arte dramatico entrò a diciotto anni, e già alla fine del primo anno si era fatta notare per una matura, intensa ancorché stranamente dissonante prova nei panni della protagonista di Casa di bambola. L’anno dopo, diretta da Consuelo Lobo, docente di drammaturgia alla Escuela, diede vita a una Winnie molto originale, alla quale regalò la magrezza commovente del suo volto ancora infantile. Dopo il diploma entrò nella compagnia di Osvaldo Guerro, che l’aveva vista al Teatro Libertador nelle vesti di Mascia nello spettacolo di fine corso. Per cinque anni lavorò con lui: il Giardino dei ciliegi, Come tu mi vuoi, Basura di Filiberto Gomez del Rio, Olvido di Atisbante…
Quando i militari presero il potere, lei e la famiglia ripararono in Francia. Fu a Parigi che nel ’74 girò il suo primo film, Le desire, esordio alla regia di un giovane che avrebbe fatto molto parlare di sé, Marcel Aronne, che l’aveva ribattezzata Alma Luz. Alma è Simone, un’aspirante attrice con più bellezza che talento, che si barcamena tra Albert, giornalista alle prime armi, e Pierre, regista teatrale e commediografo, fino a quando un incidente di macchina nel quale rimane ferita gravemente non la costringerà a fare sul serio i conti con la sua vita. Alma ha i capelli corti, e fa venire in mente una Jeanne Seberg con la pelle scura, soprattutto per le espressioni imbronciate e per certi sguardi di stupore innocente, ma per il resto è diversa, e mostra già uno stile recitativo molto personale, che avrà modo di affinare e approfondire nei personaggi successivi, più sfaccettati e complessi.

Il primo di questi personaggi scritti per lei è Ivonne, la moglie infedele di Un lungo silenzio, diretto da Bernard Lavalle e sceneggiato dall’italiano Giorgio Lucchini; il secondo Marianne, dell’opera omonima di George Blisset, ruolo grazie al quale vincerà il premio per la migliore attrice protagonista al Festival di Berlino (“È nata una stella” era il titolo dell’articolo nelle pagine degli spettacoli di Le monde. Nella recensione sui Cahiers il critico Paul Savatier parlò di “un raro talento ‘musicale’ per l’arte della recitazione'”).  La conobbi in quella occasione, subito dopo la conferenza stampa con il regista e il cast, al bancone del bar dell’albergo dove si era svolto l’incontro con i giornalisti e altri vari addetti ai lavori. Io non ero uno di loro; voglio dire che non ero né un giornalista, né un lavoratore della grande industria cinematografica che proprio in quegli anni aveva raggiunto dimensioni davvero considerevoli e un prestigio artistico mai più eguagliato.


Ero lì per caso; accompagnavo un amico che rappresentava una casa di distribuzione e frequentava per mestiere quelle mondane riunioni che si tenevano, e ancora oggi si tengono, annualmente in ogni angolo del globo, un modo piacevole e non troppo stressante per incontrarsi tra simili e celebrare una comune passione, che ha, ho potuto notare, la virtù di mantenere giovane coloro che ne sono toccati. Alma mi parve contenta di poter parlare con due compatrioti. Ci fece molte domande, era curiosa, voleva sapere come si viveva adesso laggiù, se era tutto vero quello che leggeva nei giornali francesi e che le aveva raccontato il suo amico scrittore, Julio, che lo aveva saputo da persone che erano riuscite a espatriare, e come facevamo noi a vivere in un posto dove la vita delle persone valeva meno di quella di un cane senza padrone. Manuel, il mio amico, fece un sorriso storto, amaro; io mi concentrai sul poco brandy rimasto nel fondo del bicchiere di vetro spesso.

“È tutto vero” disse Manuel, con una voce appena udibile, nella quale si sentiva vergogna e rassegnazione. “Si vive…si cerca di continuare a vivere”.
Alma volle invitarci a cena. Ci portò in un ristorante messicano poco lontano e per tutta la durata della cena fu allegra e loquace, anche se di tanto in tanto un’ombra rapida offuscava la luce verde degli occhi e una pausa più lunga faceva sospettare un retropensiero doloroso. Ci raccontò che a sette anni aveva saputo che da grande avrebbe fatto l’attrice, che se non fosse riuscita a realizzare il suo sogno sarebbe stata infelice per sempre, che niente e nessuno avrebbe potuto farle cambiare idea. “Immagino che vi sembrerà inverosimile che una bambina di sette anni possa avere le idee così chiare, ma vi giuro che è la verità” ricordo che disse, baciandosi l’anello d’argento che portava all’anulare destro, per giurare. Io dissi che le credevamo sulla parola, e aggiunsi che un talento come il suo doveva per forza essere accompagnato da una consapevolezza precoce.

Manuel annuì e si dichiarò d’accordo con me. Lei sorrise e alzò il braccio per richiamare l’attenzione del cameriere, che era a pochi metri da noi e la guardava estasiato. Scattò verso il nostro tavolo e si inchinò leggermente. Alma gli chiese il conto in tedesco e il giovane cameriere biondo volle sapere se il cibo era stato di suo gradimento. Rispose che le era piaciuto tutto, soprattutto il dolce, e lo ringraziò per la gentilezza con la quale ci aveva serviti. Il ragazzo tirò fuori dalla tasca una foto a colori della nostra attrice e le chiese di firmargliela. Sorridendo rispose che l’avrebbe fatto molto volentieri. Il cameriere le porse una biro rossa e Alma scrisse rapida il suo nome alla base del rettangolo di carta e glielo restituì tenendolo con la punta delle dita. La foto restò per un momento sospesa e tremante tra le due mani e poi sparì nell’ampia tasca della giacca dell’ammiratore che disse “danke” e andò via.

Tre giorni dopo, alle nove di sera, ci furono le premiazioni. Il presidente della giuria, il finlandese Kaurismaki, le consegnò la statuetta e lei se la strinse al petto come fanno le bambine con le bambole. Sotto le luci e in quello spazio smisurato sembrava ancora più fragile e indifesa. Forse fu per questo che cessarono i mormorii e tacque la musichetta di sottofondo. Disse solo, in francese: “Vi sono molto grata per avermi scelta, ma purtroppo non posso gioire. Spero torni presto il tempo in cui si potrà farlo senza provare vergogna”. L’indomani noi tornammo a casa, ma avevamo voglia di restare, lei tornò a Parigi, dove ad aspettarla c’era il set del nuovo film di Claude Chabrol.
Nella fredda atmosfera di sospetto e paura nella quale eravamo immersi, le nostre vite ambigue e, in molte circostanze apertamente false, il cinema era per me e i miei amici un rifugio e una fuga da una realtà che sapeva di ruggine, acciaio e umide caserme. Le pellicole erano accuratamente selezionate, e nulla che avesse un seppur vago contenuto politico poteva superare la rigida, ottusa censura ministeriale. Le sale delle città più grandi progettavano western del periodo classico, commedie romantiche e film di propaganda più o meno mascherata da giallo o da film d’avventura, quelli della provincia chiudevano o si trasformavano in circoli ricreativi e d’indottrinamento del partito al potere. Ogni tanto però qualcuno riusciva a far arrivare la copia imperfetta e sbiadita di un film di Antonioni, Scorsese o Godard, e allora organizzavamo, con molte complicate precauzioni, una proiezione nella cantina di Manuel, o di qualcun altro del nostro gruppo di cinefili. Alma Luz la ricordavano e l’amavano tutti, alcuni di noi avevano fatto in tempo a vederla a teatro, su di lei era nata una riconciliante leggenda nella quale si fondevano il vero, il verosimile, il falso e il finto, alimentata dalle notizie inverificabili diffuse non si sapeva da chi, destinate però a essere smentite da altre o a cadere nell’oblio.

Al ritorno da Berlino, Vicente, Jaime e Rodrigo vollero sapere ogni dettaglio sia della cena che della premiazione: l’arredamento della trattoria messicana, che vestito indossava Alma, cosa avevamo mangiato, se aveva menzionato qualcuno dei suoi insegnanti o fatto cenno ai cineasti che avevano scelto di restare. Raccontammo, a turno, la cena, la serata, il cameriere timido che le chiede l’autografo, la sua figura come sul punto di dissolversi nell’alone rosso delle luci, le poche parole dette con voce ferma…; i fotografi, il vino bianco.

Nel tempo i contorni reali di quella sera passata con Alma si fecero meno netti; così come la sua immagine, che nel ricordo mutava sovrapponendosi a quella dei suoi personaggi: Ivonne, Marianne; la selvaggia Paula, la ricca ereditiera di Blossom, l’ambigua Giselle del dramma di Zimikis; e Isabelle Lorent, la pittrice d’avanguardia che lotta per affermarsi in un ambiente artistico dominato dagli uomini. Alma era anche loro, almeno per una parte variabile della sua personalità, e a loro aveva dato una parte di sé, la più intima e segreta, e in uno scambio a doppio senso che aveva reso più ricche le donne inventate e modificato in qualcosa la donna reale che le aveva fatte vivere sullo schermo: ognuna di loro era stato un incontro che aveva allungato il raggio della sua sensibilità umana e artistica.
Dopo la dichiarazione di Berlino alle case di distribuzione nazionali fu proibito di acquistare i diritti delle opere in cui compariva Alma Luz. L’ostracismo durò tre anni; poi i suoi film poterono essere doppiati e distribuiti, compresi i primi, che nessuno aveva mai visto; nessuno tranne noi, i cerimonieri del culto clandestino, che eravamo riusciti a far entrare una copia di Un lungo silenzio e Marianne.

I rotocalchi la celebrarono, i critici la studiarono, le donne l’invidiarono e gli uomini l’amarono a prima vista, amando ogni volta una donna diversa ma in fondo inseguendo sempre la stessa fantasmatica illusione. Il resto della storia (che non è una vera storia, ma una rapsodica testimonianza e un omaggio) è una prevedibile e superflua raccolta di cronache mondane, titoli di film, nomi di mariti, viaggi, vacanze, servizi fotografici.    Ma per me è soprattutto un lungo silenzio dietro il quale la più grande attrice della sua generazione – che è anche la mia – ha consumato con elegante discrezione gli ultimi bagliori della sua indimenticabile dissolvenza.


Di Bac Bac