di Enzo Campo
In questi giorni m’è capitato di passare da Salemi; non c’ero mai stato, né prima né dopo il terremoto del ’68, quello del Belice; nelle grandi linee posso immaginare com’era prima e sono rimasto senza parole nel vederla come m’è parsa ora: strade larghe, spiazzi, svincoli, monumenti avveniristici, gruppi di case uguali, spesso con giardinetto e garage, cemento a faccia vista, e cioè in definitiva artificiosamente appoggiata su una terra che, immagino, se avesse potuto decidere, l’avrebbe fatta completamente diversa.
Passare per Salemi e vedere una città nuova, interamente ricostruita, mi ha portato a pensare a tutte le calamità italiane delle quali ho memoria, alle baraccopoli che ne sono seguite, alle ricostruzioni, agli scandali, al balletto delle responsabilità…. il Vajont, l’alluvione di Firenze, il terremoto del Belice, l’Irpinia, la frana di Agrigento, l’esportazione d’un intero quartiere da dove l’avevano piazzato i Berberi della dominazione musulmana a Villaseta.
Ho pensato, fra quelle, alla calamità che meglio ho avuto modo di conoscere, perché in qualche modo ho direttamente vissuto e pure digerito: la frana di Agrigento del ‘66.
Si presentava come una giornata qualunque, quel 19 luglio 1966; non ci si aspettava nulla, se non la partita della nostra nazionale contro quella della Corea del Nord per i mondiali di calcio in Inghilterra. Mio padre era lì, in Inghilterra, proprio per assistere a quel Mondiale che doveva essere, nelle sue intenzioni, io credo, una distrazione, il modo per svagarsi un po’ dopo la tragedia della morte di mio fratello Enrico, e che in realtà sarebbe stato l’ultimo suo divertimento dato che da lì a poco sarebbe improvvisamente venuto a mancare.
Non posso dimenticare che da quel viaggio mi portò una gran quantità di libri e giornaletti in inglese e scoprii che Carlo e Alice, la piacevolissima striscia a fumetti della “Settimana enigmistica”, lì, nella sua patria, si chiamava Andy Cap.
Secondo le previsioni, mi spiegarono, era una partita dall’esito scontato, ma, invece, l’Italia perse miserevolmente per uno a zero: “Una frana”, titolarono i giornali sportivi il giorno successivo, come lessi in un gustosissimo articolo di Francesco Erbani di quarant’anni dopo su Eddyburg.it.
Ma guarda che casi! Una frana in metafora del gioco del pallone, che, nella graduatoria degli amori degli italiani, è secondo solo a quello per la mamma; frana reale, vera, fisica, ad Agrigento e infine, con quella vera, altra frana in metafora per l’Italia intera, per il suo modo di concepire il costruire, il vivere e l’abitare.
Era caldo, come del resto non poteva non essere in pieno luglio ad Agrigento, e ovviamente, stavamo coi balconi aperti; c’era il silenzio dell’estate, quello di quando il caldo ti porta a fare tutto con più lentezza e meno rumore; non c’era la gran quantità di macchine in circolazione che c’è ora e si potevano intendere le chiacchiere della gente che passava, delle donne che, da balcone a balcone, conversavano sulle cose d’ogni giorno, il prezzo delle patate, il caldo, l’acqua che non veniva… si sentiva il rollio dei cuscinetti a sfera che erano le ruote dei “motopattini” e cioè monopattini in legno autocostruiti e abbelliti con i “birri”, i tappi a corona; quello dell’aranciata San Pellegrino era molto ricercato perché raffigurava una stella a cinque punte e perciò utile anche, se applicato sulla camicia, a far diventare sceriffo chi la portava.
Non so proprio cosa stessi facendo, forse leggevo o sognavo, quando sentii che qualcosa fuori cambiava; ai rumori ordinari si andavano aggiungendo e poi sempre più si sovrapponevano dei rumori nuovi, diversi, parlari concitati, cose dette ad alta voce … mi affacciai al balcone della sala da pranzo e mi si parò davanti uno spettacolo inatteso e veramente inconsueto: gruppi di persone che venivano dalla Bibbirria e che scendevano verso San Giuseppe e altri che, invece, al contrario salivano da San Giuseppe per andare verso la Bibbirria; portavano con se masserizie, materassi, cazzeruole … parlavano fra loro e si scambiavano informazioni, urlandosele, fra grida scomposte di donne e pianti dirotti di bambini. “U terremotu, u terremotu!”, dicevano, “a me’ casa cadì ‘n terra a santa Cruci, un palazzu novu, senza finutu pi’ grazzia di Diu, sinni calà sanu sanu… sulu l’urtimu pianu affaccia di ‘n terra…, minn’acchianu ni me’ matri, a san Micheli….”, “ma unni va’, sbinturatu! Vegnu di San Micheli e cadì a chiesa… dici ca cadì puru u Palazzu Standa”; da lì dov’ero, per la verità, il palazzo dove era la Standa lo vedevo ancora in piedi, in lontananza dietro la Badia Grande, il Monastero di Santo Spirito, ritto, brutto di cemento e ferro com’era…, non era vero, s’ingigantiva in qualche modo ciò che era successo.
Qualcuno più fortunato le masserizie se le portava, non si sa bene dove, col carretto, e qualche altro più moderno con la moto ape e un tale, un imbianchino che io conoscevo e pieno di tic nervosi che Dio solo sa come potesse guidare, portava in salvo la moglie e i due figli sulla sua fida Lambretta. Ma in salvo dove? Se ci ripenso mi chiedo come fu che restai lì a guardare quello che accadeva senza farmi prendere dalla frenesia di quella massa di sfollati che passava sotto e che fuggiva da un pericolo per andare, a dire degli altri che pure fuggivano ma in senso contrario, verso un altro pericolo; mi trovavo, a sentir loro, nel bel mezzo di due terremoti, uno al Rabbato e uno al Monte… non ricordo nulla e non so perché con tutta la famiglia restammo lì, in via Bac Bac, incauti o eroici. Del resto non era un terremoto, ma una frana e la terra si assestò e si fermò.
Allora i quartieri popolari brulicavano di gente e di vita, le case piccole, fatte di una cucina e una stalla al piano terra, una o due camere al primo piano, non potevano certo contenere l’esuberanza dei molti figli che, ovviamente, svolgevano la loro vita per strada, nei cortili e nelle piazze; li invidiavo, io che non ero ragazzo di strada, per le scorribande che potevano fare da un quartiere all’altro, per il loro giocare alla guerra a pericolose sassate o ad andare a caccia con archi e frecce costruiti con le stecche dei parapioggia rotti; a giocare “ai pupazzi”, alle figurine dei calciatori, cercando di rivoltarne, con un soffio o con una manata, il maggior numero possibile fra quelle messe in gioco e sistemate a mazzetto a ridosso di una scala o d’un portone; la mia invidia andava alle loro tasche, le tasche dei loro pantaloni, che contenevano fino a sformarsi la trottola di legno con la sua “lazzata”, la collezione di “birre” e quella dei pupazzi… avevo la bicicletta Legnano, io, i trenini Rivarossi e la pista Polycar, che tutti i ragazzini che, garzoni dei bottegai, avevano modo di venire a casa mia guardavano con impossibile ammirazione, ma io avrei voluto il loro “motopattino”, avre voluto andar con loro ad estirpare le radici della liquirizia che cresceva aulle “timpe”, quei costoni d’argilla che aggettavano sul viale, nei pressi del Monumento ai caduti, ora sbancati per costruirvi altri palazzi; pur di star fuori casa e libero mi sarei accontentato pure di stare con le femmine a battere la palla al muro ed eseguire le piccole acrobazie che venivano nominate man mano che si recitava la filastrocca: “con una mano, con un piede, giravolta, batticuore, tocco terra…”, o anche, saltare da una casella all’altra del campanaro…. Non mi era consentito e io, ahimè!, ero ubbidiente.
Ma non solo i ragazzi, ma anche i grandi stavano per strada in quel punto d’ombra che necessariamente doveva esserci nel cortile, che era stretto, corto e chiuso da un lato apposta per poter avere l’ombra in qualunque ora della giornata; le donne pulivano regolarmente, ognuna, il tratto di strada antistante la propria casa e chiacchieravano fra loro nel fare le faccende e con i mariti che si sedevano davanti la porta, al ritorno dalla campagna, dopo aver sistemato la cavalcatura e la capra nella stalla e aver riposto dove dovevano il basto e le bisacce e le cose che avevano portato. Non c’erano bar, ma tutt’al più osterie, indicate da una semplice insegna costituita da una bottiglietta di gazzosa riempita di vino rosso e da un mazzetto d’alloro… luoghi, rigorosamente vietati alle donne, in cui tra gli olezzi della brace di pesci azzurri, sarde, sgombri o sauri, si giocava a zecchinetta, si beveva vino e si bestemmiava… c’erano le botteghe d’alimentari e quelle dei fruttivendoli, le botteghe dei mastri d’ascia e quelle dei maniscalchi… qualche articolo casalingo lo vendeva Scozzari e Gagio, in via Atenea, ma le cose più importanti, come i recipenti di terracotta per l’acqua, bummuli, quartari e lanceddri, si compravano per fiera di san Calogero insieme all’immancabile tamburino e setaccio nuovo, tammurinu e crivu novu.
Dopo la frana tutto questo non esistette più: con le case e i palazzi, il terreno, nello scivolare, si portò dietro la gente fino a Villaseta e lasciò per strada, chissà dove, le sue abitudini, le botteghe e le taverne.
Molte cose sono cambiate e, ovviamente, indietro non si torna; ma può darsi, io sono convinto, che il risanare quei quartieri ormai abbandonati potrebbe migliorare la qualità della vita di chi potrà tornare a viverci.