di Tano Siracusa

Il passaggio dalle riprese con pellicola a quelle digitali ha determinato l ‘abbandono dell’attività fotografica di molti professionisti legati all’informazione, che hanno cercato negli ultimi anni contesti di operatività e di comunicazione diversi. A volte il film, a volte il documentario, a volte un uso completamente nuovo della camera fotografica, alla ricerca in questo caso di immagini che devono essere ‘spiegate’, decifrate da complessi apparati verbali e destinate a libri costosi ed elitari circuiti espositivi. Mentre i fotoreporter più che alle testate giornalistiche, tradizionale rifermento lavorativo novecentesco, sembrano ormai rivolgersi ai grandi concorsi internazionali.

Raramente si riflette su ciò che si è perduto in questo passaggio. A cominciare dall’aspetto ludico della pratica fotografica, dal piacere connesso alla ricerca di fissare proprio l’istante che meritava di essere fotografato.

Forse ad essere decisiva era la consapevolezza della disponibilità limitata della pellicola. Non dei suoi costi, che pure erano elevati, ma del numero limitato di scatti disponibili. Trentasei. Quando finivano si perdeva tempo prezioso per caricare il nuovo rullo.

Si aspettava anche a lungo prima di scattare, e poi bisognava essere veloci e precisi, anche per delle brevissime sequenze: due, tre scatti.
Era anche questa l’abilità, tanto celebrata, dei fotografi bressoniani. E naturalmente la scelta della distanza, dell’inquadratura. Era un’abiltà proporzionale al piacere che procurava il suo esercizio. Sapevano attendere e ciò sembrava anche ‘naturale’, come è naturale nella realtà umana la presenza del limite. Il limite dei materiali, della pellicola, della capacità manuale di scattare e caricare velocemente, del tempo minimo dell’otturatore. Era come una sfida. Una corrida con il tempo, l’ha definita una volta Ferdinando Scianna.

Sarà un caso, ma la crisi del fotogiornalismo coincide con l’affermarsi di un paradigma che sembra perseguire non il superamento ma una sorta di sfondamento del limite, una tendenza alla dismisura. All’iperbole dei numeri, delle foto che in un secondo vengono scattate nel mondo, di quelle che mediamente ciascuno di noi vede in un giorno, della velocità degli scatti che tendono a sconfinare nella continuità delle riprese video. Oggi si può fotografare la traiettoria della pallottola che ha ferito Trump con una raffica di istantanee. Si può vedere ciò che sfugge all’occhio umano, ai suoi limiti.

Naturalmente è anche più facile scegliere l’ ‘istante decisivo’ dopo, rivedendo le sequenze che approssimano un film, piuttosto che fissarlo mentre quell’istante accade. Ma è anche meno divertente, e meno leale con la fuga del tempo.

Ciò che rischia di perdersi non è tuttavia un astratto codice cavalleresco in una sfida con il tempo che raramente viene vinta – i pochi scatti buoni fra i tanti da scartare -, ma un’abilità socialmente utile legata a un contesto tecnologico storicamente determinato. Le abilità professionali che non vengono più esercitate si perdono. L’industria, fin dalla sua prima fase, ha reso obsolete, superflue, le abilità di innumerevoli maestranze di artigiani.

Ancora qualche anno fa nei villaggi dell’Amazzonia brasiliana i ragazzi giocavano a pallone di notte, quasi al buio, ma prendevano in giro i vecchi che faticavano ad accendere il fuoco sfregando i due legni. Ormai avevano gli accendini.

Quell’esercizio di abilità cui obbligava l’uso della pellicola, la sua limitata disponibilità, oggi non serve più e perciò si va perdendo. Come il piacere che procurava. Come la visione notturna nei villaggi dell’Amazzonia con l’arrivo della luce elettrica e il rispetto degli anziani con l’acquisto degli accendini.

Di Bac Bac