di Vito Bianco

Amici con i piedi ben piantati sulla terra, per niente facili all’entusiasmo ce ne parlarono con convinzione e fervore una sera a cena a casa loro, dopo il dolce, mentre stavamo sorseggiando un liquore di erbe forte e amaro.
“So che potrà sembrarvi incredibile, o un imbroglio, una delle molte illusioni per ingenui sprovveduti che non aspettano altro che l’occasione per farsi truffare, come se ci godessero” cominciò a dire Gina; “e anche noi, al principio, abbiamo diffidato. Possibile, ci dicevamo che esista davvero un posto simile? Non può trattarsi che dell’ennesima patacca a scopo di lucro che fa leva su un bisogno sempre più diffuso e sul desiderio di un bene sempre più raro, la cui rarità, è facile prevedere, è destinata ad aumentare”.
“E infatti ci abbiamo messo un bel po’ prima di decidere che forse valeva la pena di fare un tentativo” intervenne Ferruccio, il marito, un matematico specializzato nella teoria dei frattali, quindi un uomo abituato a muoversi sul solido terreno dei numeri, delle probabilità e delle ipotesi verificabili. “E poi, ci chiedevamo, se anche fosse tutto vero, quanto costerà? Non so cosa fu a farci rompere gli indugi, spazzando via le perplessità e i dubbi, se qualcosa ci fu, dato che probabilmente a spingerci a partire fu soltanto la curiosità, la voglia di vedere se in quella notizia c’era qualcosa di vero, o se, al contrario, tutta la faccenda altro non era che un’impostura ben architettata”.
Ferruccio mi versò un altro dito di liquore alle erbe e riprese il racconto con studiata lentezza; la mano sinistra scandiva ogni pochi minuti un ritmo ternario che funzionava come una specie di colonna sonora tra due segmenti della narrazione. Non sono in grado, ovviamente, di riferire ogni singola parola pronunciata dal mio amico con la sua voce profonda e a tratti leggermente gracchiante, mi limito perciò a riportare la sostanza di quella che lui stesso chiamò l'”esperienza”, ossia la prima volta in cui le solide coordinate che fino a quel momento avevano tenuto ferma la sua visione del mondo hanno vacillato rischiando di spezzarsi.
Ferruccio si era illuminato di un curioso sorriso autoironico mentre rifletteva sull’imprevedibilità della vita, su come, non per modo di dire, conveniva lasciare aperte tutte le porte, comprese le più inverosimili, come quella che, contro ogni previsione aveva deciso di provare ad aprire. Il posto, un minuscolo borgo medievale, era tutt’altro che facile da raggiungere. Il treno, un interregionale consumato e lento, li portò dal capoluogo a una stazioncina sopravvissuta al tramonto dell’epoca del libro mastro degli orari e delle millimetriche coincidenze, il tempo ormai per noi tanto irreale e lontano quanto quello testimoniato dalle pietre grezze e dagli archi di Filetto, che è il nome del borgo dove i nostri due amici arrivarono una tarda mattinata dello scorso mese di ottobre: la porta d’ingresso ad arco, la mappa su un rettangolo di metallo, una piazzetta centrale con un bar e un ristorante dove una ragazza rossa con le trecce stava apparecchiando i quattro tavoli all’aperto, una chiesa piccola a una navata di pietra grigia dedicata a san Genesio, il santo buffone patrono degli attori che si era miracolosamente convertito mentre si esibiva in una parodia del battesimo di Cristo.

“La ragazza aveva smesso di sistemare tovaglioli e posate sui verdi copritavola e ci guardava con espressione interrogativa” riprese Ferruccio, riempiendosi il bicchierino di liquore. “Gina mi toccò il dorso della mano, come per dirmi di lasciar fare a lei, e si mosse verso la ragazza, che vedendola arrivare le sorrise. Dopo qualche minuto, tornò con l’informazione: bisognava imboccare il vicolo sul fianco destro della chiesa e andare avanti oltre il terzo arco, poi prendere la scalinata che conduceva in una piazzetta quadrata. Lì avremmo visto, guardando in direzione delle montagne, un’insegna di legno chiaro con al centro una grande S azzurra.
Bussammo a una porta massiccia di castagno scuro in fondo ancora convinti della natura goliardica di quell’insolito viaggio, conseguenza inaspettata di un articolo letto per caso due settimane prima. Venne ad aprirci un vecchietto sbilenco che ci salutò con un inchino e ci disse di seguirlo”.
Ferruccio si interruppe un momento, guardò Gina, che fece un  breve cenno con la testa. L’ultima parte del racconto l’ascoltammo dalla sua voce acuta ma debole, tanto che io, diventato con l’età un po’ duro d’orecchi, fui costretto a scambiare il mio posto con quello di Luciana, che le sedeva accanto.
“Il vecchietto ci condusse in una specie di cantina bassa e umida, lungo le cui pareti erano allineate delle damigiane di vetro di diverse dimensioni. L’omino, che ora aveva stampato in viso un sorriso da gnomo, si era fermato al centro dell’angusta stanza e ci guardava in attesa di sentire quale delle damigiane pensavamo di comprare. Noi eravano ammutoliti, non so se per l’assurdità della situazione o per il fatto di avere sotto gli occhi la prova, chiamiamola così, dell’esistenza di un luogo dove qualcuno era riuscito, chissà come, a imbottigliare una cosa tanto preziosa quanto priva di sostanza, il silenzio. Comprammo una damigiana media, da due mesi, che pagammo quattrocento euro e, dopo aver pranzato nel ristorante della piazza, tornammo a casa”.
Gina sorrise e si alzò per prendere dal frigorifero il semifreddo che avevamo portato io e Luciana. Quando riapparve con la torta, Luciana disse: “Si può vedere?” Io avvampai per l’imbarazzo e cercai di rimediare balbettando qualche parola che aveva lo scopo di permettere ai nostri amici di uscire con onore da quella situazione incresciosa. Ma Ferruccio disse forte: “Ma certo che si può! La teniamo nel mio studio. Dopo la torta, vado a prenderla e la porto in salotto”.
Ferruccio posò delicatamente la damigiana di vetro sul tavolinetto di mogano accanto al divano grande e disse: “Adesso tolgo il tappo e sentirete”. Aprì e chiuse due volte la mano destra e tolse il tappo di sughero dall’imboccatura. Chiuse gli occhi inclinando leggermente la testa all’indietro mormorando: “Sentite?” Anche Gina aveva chiuso gli occhi  tenendo le mani allacciate all’altezza del petto. Io guardai Luciana e mi portai piano piano un indice alla tempia. Poi dissi, sforzandomi di trattenere le lacrime: “Sì, Luciano, sento… È meraviglioso!”

                                   (a Enzo e Giovanna
                                    e ai tre giorni in Lunigiana)

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dipinto di Giorgio Morandi

Di Bac Bac