di Tano Siracusa

ll livello culturale di una città, la sua produzione di simboli, di mondi paralleli, è inevitabilmente intrecciato alla sua storia, alle trasformazioni sociali ed economiche, al loro concreto divenire e materializzarsi in un territorio. Dimenticarsene è rischioso, anche se l’oblio, a volte, può sembrare una soluzione.

Sarebbe un’ovvietà se non si inciampasse nel fenomeno, piuttosto recente e di problematica decifrazione, delle ‘capitali della cultura’. Quello di Agrigento capitale della cultura nel 2025 è un inciampo esemplare.

Ancora nei primi anni ’50 Agrigento era la cittaduzza descritta da Pirandello, la Girgenti raggomitolata nelle misere casupole di Terra Vecchia, con le sue tante chiese e i palazzi signorili, i seminaristi e i mendicanti, gli asini e le greggi sulle scalinate che si arrampicano verso la Catedrale. La valle dei templi e il mare di san Leone erano lontani, meta di gite e scampagnate. Pochissime le auto in circolazione. I rari turisti che si spaesavano in centro storico venivano irretiti e presi in giro dai ragazzini che sciamavano impenitenti per le vie della città.

La cittaduzza pirandelliana scompare in un decennio, nel frastuono delle ruspe e nella generale euforia dei suoi abitanti, del ceto politico e di una imprenditoria d’assalto. Pochissime in città le obiezioni, le resistenze, le critiche aperte a una forma di modernità, di ‘americanismo’ avrebbero scritto, che avvrebbe segnato fino ad oggi il profilo della nuova Agrigento, il tracciato della sua parabola.

Agli inizi degli anni ’60 un paio di firme prestigiose sui quotidiani nazionali descrivono la scasso urbanistico della ‘città dei templi’, le ombre dei fantasmagorici palazzoni di venti piani in cemento armato che oscurano l’intera città vecchia, costruita come i templi della valle con conci di tufo arenario. In pochi anni viene cancellato il dialogo visivo fra la città arabo-normanna e chiaramontana sulla collina e la città greco-romana a valle. I tanti belvedere inquadrano adesso dalla collina una imponente quinta di cemento.

La frana del 1966 è per il boom edilizio l’inizio della fine. L’ opinione pubblica nazionale e del mondo intero scopre una città devastata dai suoi stessi abitanti. In poche settimane l’immagine della città dei templi viene ribaltata nella ‘città dei tolli’, modello di scempio urbanistico, di ‘antica civiltà e moderna barbarie’. Dichiara in quei giorni il ministro Mancini: “…fatti gravi, allarmanti, mostruosi […] che, purtroppo, stanno a dimostrare che in questo campo ad Agrigento nessuna legge è esistita o è stata osservata e che la sola legge è stato l’arbitrio”. Una relazione ministeriale, quella di Michele Martuscelli, attraverso una approfondita indagine descrive la mancanza di adeguati strumenti urbanistici, le irregolarità, le omissioni, le deroghe, l’intreccio di malapolitica e affari, il blocco sociale che si aggrega nella gigantesca manomissione dei luoghi. Processati e condannati sui media, i presunti responsabili del sacco edilizio vengono assolti nei tribunali. Ma è la città ad autoassolversi, a figurarsi vittima, a protestare.

Il decreto ministeriale Gui-Mancini ,che sottopone a vincolo di inedificabiltà assoluta una vasta area della valle, viene percepito come punitivo, suscitando un risentimento diffuso che ha avuto per alcuni decenni la sua espressione più clamorosa e aggressiva nel movimento degli abusivi. Con la frana infatti finisce il boom edilizio ma non l’abusivismo, anche all’interno del perimetro del Parco archeologico, in quella zona A dove nei primi anni ’90 si censivano più di quattrocento nuove case abusive, non sanabili per legge dello Stato.

Il tono culturale in quei decenni arroventati è quello di un appartato centro di provincia, che riesce a produrre anche appuntamenti annuali di interesse nazionale, come l’Efebo d’oro e i Convegni pirandelliani o le molte iniziative promosse dal Centro P.P.Pasolini e dall’Accademia Studi Mediterranei. Sono quasi tutte iniziative culturali che tuttavia eludono i temi della città, della sua trasformazione, delle diverse modalità relazionali degli agrigentini, ad esempio nei nuovi condomini l’inedita modernità verticale. La prossimità diventa in pochi anni un vicinato incombente e invisibile, che si sostituisce all’orizzontalià delle relazioni nei cortili, negli slarghi fuori casa, a un’antica socialità litigiosa e solidale, in una certa misura plasmata dalle caratteritiche strutturali dell’impianto urbanistico medievale, simile alle medine arabe.

Una sensibilità culturale vivace, anche brillante quella dei decenni successivi al trauma della frana, che ignora non la scomparsa delle lucciole, segnalata dal poeta e abusata, ma dei contadini del Rabato, della vita nei cortili e nelle scalinate del centro storico, dei nuovi aggregati sociali, di una antica parlata che si corrompe. Anche la nuova sinistra giovanile sull’onda del ’68, con poche eccezioni fra i dirigenti di Lotta Continua, guarda altrove, ai grandi scenari nazionali e internazionali.

L’inizio del nuovo secolo, incubato da ‘Mani Pulite’ e dalla fine della prima Repubblica, segna nella città un rapido declino. Con l’apertura dei grandi centri commerciali chiudono a uno a uno i negozi in via Atenea, la via-salotto, mentre l’incremento complessivo della mobilità internazionale legata anche ai processi di globalizzazione favorisce l’investimento di risorse private nell’accoglienza di migranti e turisti.

Si moltiplicano i B&B e le case in affitto in un centro storico sempre più interetnico, parzialmente ripopolato da senegalesi, marocchini, bangladesi, indiani. La via Atenea si riconfigura in funzione della domanda crescente dei visitatori, alloggi a buon prezzo, caffè, locali, ristoranti, minimarket. Ma l’offerta turistica complessiva rimane non competitiva. E non solo per la carenza idrica o per la disseminazione di discariche e sacchetti della spazzatura non raccolti in qualunque angolo della città (ad eccezione del Municipio e del Palazzo della Provincia).

Si aggiungono infatti i nodi irrisolti dello sviluppo distorto della città, di piani regolatori basati su previsioni di incrementi demografici irrealistici, sovradimensionati, e la conseguente inadeguatezza di strutture e servizi pubblici essenziali, in un contesto di sregolato privatismo che ha aggiunto brutture e scheletri di costruzioni incompiute sparsi ovunque.

Il tema della mobilità interna, prima inesistente, non si pone solo perchè non si riesce neppure a immaginare un’alternativa all’uso del mezzo privato di trasporto. L’area urbanizzata si è dilatata fino a lambire paesi distanti decine di chilometri dalla città del dopoguerra, aggglomerati periferici di un tessuto urbano privo di un sistema di trasporto pubblico efficiente e affidabile. Chi non possiede un’auto non può sincronizzarsi con i tempi pubblici, comuni, del lavoro, della scuola, gli orari di apertura e chiusura dei locali, dei servizi, anche di quelli destinati al tempo libero. Turisti e residenti se vogliono raggiungere la valle dei templi la sera, quando si svolgono numerosi ‘eventi’, o vanno a piedi oppure rimangono dentro l’auto anche mezzora, nella speranza di trovare un posto nel parcheggio immerso in un nebbioso e acre polverone a ridosso dei tempio di Giunone. Non esistono bus navetta. Neppure per san Leone, proiezione balneare, ‘doppio’ vacanziero della città, ovviamente invasa nei mesi estivi dalle auto.

Un modello insomma, quello agrigentino, di città antiecologica. I giovani che possono permetterselo frequentano le università del centro-nord, fanno esperienza di altre città e raramente ritornano. Anche l ‘offerta culturale, al di là del Parco archeologico e dell’area della Cattedrale, negli ultimi decenni si è impoverita. L’Efebo d’oro ha trasferito da tempo la sua attività a Palermo, i convegni pirandelliani sono cessati poco dopo la scomparsa del suo ideatore e organizzatore, Enzo Lauretta, il centro Pasolini a corto di finanziamenti ha chiuso per molti anni la sua sede storica, riaperta solo da pochi mesi, è scaduta la qualità delle tevisioni locali, che negli anni ’80 e per un quindicennio era stata, con Teleacras diretta da Taglialavoro, anche una scuola di buon giornalismo televisivo. E ancora: il museo civico da decenni inagibile, il palazzo Tomasi più volte restaurato e mai aperto, un grande parco, Parco Icori, con attrezzature sportive, un grande teatro e un cinema all’aperto, completamente abbandonato, il Teatro Pirandello serenamente sconnesso dalle ricerche e dalla sperimentazione scenica contemporanea, proprie del grande drammaturgo agrigentino. Su tre librerie in via Atenea, due hanno chiuso l’anno scorso.

Un’offerta culturale complessivamente modesta, che riflette la decadenza generale della città. In controtendenza l’antico ‘scaru’, una grande piazza del centro storico, dove alcuni trentenni hanno aperto un caffè organizzando presentazioni di libri, proiezioni, dibattiti, concerti, e la riapertura delle Fabbriche Chiaromontane, con mostre e incontri con autori. Poco altro.

Ma il livello culturale di una città si innerva e si manifesta nell’insieme dei suoi depositi materiali, nella sua cifra urbanistica, nell’articolarsi di abitazioni, monumenti, emergenze architettoniche, verde pubblico, contenitori culturali, relazione con il contesto paesaggistico, pulizia e decoro urbano, funzionalità dei servizi. Per molti di questi aspetti Agrigento potrebbe aspirare a qualche primato solo in una scala di valori rovesciata.

La semplice candidatura della città a capitale della cultura, già tentata dalla precedente amministrazione, era sembrata perciò (a pochissimi agrigentini) una trovata quasi paradossale, un’involontaria provocazione. Un equivoco, un malinteso.

Finalmente con il Volo, con i templi e il pubblico addobbati per un Natale a 30 gradi, fra gli sghignazzi, l’ilarità, i sarcasmi e le invettive sui social per il milione e passa di euro spesi, per la scempiaggine della trovata, e per un pubblico di soli invitati (convenientemente vestiti), adesso il malinteso può dirsi chiarito.

Agrigento Capitale della Cultura 2025 è ora più decifrabile: per ‘cultura’ bisogna intendere tre tenori che cantano qualche canzone siciliana ai templi in un Natale fuori stagione, e pazienza se non c’è la neve e costa così tanto. Diceva un brillante economista che la cultura non fa mangiare. Non farà mangiare (e bere), ma non è gratis.

Di Bac Bac