di Tano Siracusa

Vista dall’alto la città è una striscia bianca lunga diversi chilometri, adagiata sulla spiaggia che avanza e si ritira profondamente al respiro dell’oceano. Il porto e la Medina sono laggiù, un piccola porzione del territorio urbanizzato, la vecchia Mogador.
Tutte le città marocchine hanno dilatato nell’ultimo trentennio le loro periferie, ordinate, pulite, a volte disabitate. Una bolla edilizia che non ha risparmiato tratti di costa incontaminati, come Imsuane, a pochi chilometri da Essaouira, dove l’unico tetto era quello di una baracca per cucinare il pesce e diventato ormai un piccolo villaggio per vacanzieri con strada asfaltata e tanto cemento armato.

Essaouira col passare del tempo si è trasformata in uno schermo dove alle immagini di una fra le principali mete turistiche del Marocco si sovrappongono quelle non meno evidenti, allucinatorie, di una città misteriosa fra il deserto e l’oceano, dove le donne, velate, sembravano bambole russe, avvolte nelle coperte di lana bianca o nera, e gli uomini sostavano sotto i portici nascosti nei lunghi mantelli incappucciati; città di ombre e di vento umido, che di sera brulicava di una folla ondeggiante sotto gli strepiti dei gabbiani e fra una moltitudine di gatti sonnolenti, veri signori della città.

Sono rimasti i gatti e i gabbiani, ma la folla che dalla piazza dell’Orologio si inoltra per le principali strade della Medina oggi è in buona parte composta da turisti, vestiti da turisti e indaffarati davanti agli innumerevoli negozietti acchiappaturisti. Sul lungomare si affacciano gli alberghi a quattro e cinque stelle, con piscina e sala di massaggio, e poi qualche night club, ristoranti e locali costosi che si avvicinano alle mura di cinta della Medina, lungo un ampio viale alberato. Se tira vento si sente il rumoreggiare delle onde su cui volteggiano i surfisti.
Ma basta imbucare dalla via principale della Medina uno dei tanti tunnel bui, rischiarati da qualche piccola insegna di hotel, lampade accese nelle botteghe degli artigiani o di qualche ristorantino berbero, per smarrirsi presto in un piccolo labirinto pieno di piccole, ingenue sorprese, angoli, anfratti del tempo dove da qualche vetrina appannata un manichino di sessanta anni fa scruta l’angolo della strada, guarda con i suoi occhi ciechi una donna china su un passeggino, un palla che rotola inseguita da due bambini, una vecchia che ringrazia Allah e bacia la mano di chi le ha donato un dhiram.
Si imbuca un tunnel, si torna indietro nel tempo e si incontra la stessa fame di allora, quando nei primi anni anni ’80 le misteriose donne avvolte nelle coperte si gettavano sugli avanzi dei pasti lasciati dai viaggiatori, sollevando il velo con gli occhi lucenti.
Lo sfarzo luminoso o discretamente dosato che avvolge il flusso dei turisti dista poche decine di metri dai vicoli bui che si inoltrano verso la Mellah, il quartiere ebraico dove è in atto una vasta ristrutturazione che trasformerà verosimilmente una delle zone più degradate delle Medina in un ambiente residenziale. Nel vasto spazio sterrato sotto le mura merlate della fortificazione portoghese due bambini intanto giocano a pallone, un vecchio seduto su un piccolo tappeto ha acceso un fuoco.
Il turismo ha portato in città risorse, capitali, investimenti e ne ha modellato una parte, quella più a ridosso delle mura, assecondando la domanda del mercato, sostituendo a un paesaggio urbano e sociale premoderno, di commercio essenzialmente locale, una variante esotica, di maniera, dell’attuale offerta cosmopolita acchiappaconsumatori, con l’aggiunta di un buon artigianato locale, di legno, ceramica, e di ferro con esiti in questo caso a volte virtuosistici. Città di artisti, di pittori, buen retiro di artisti occidentali. Città di luci. L’altra città è lì accanto, in ombra, al buio.
Le paghe degli operai sono molto basse e la siccità ha compromesso i raccolti nelle campagne. A pochi chilometri da Essaouira gli alberi di argan hanno perso le foglie. Su quelle terre aride, solcate da larghe piste, polverosi letti di fiumi scomparsi, non piove più. Il raccolto è stato pessimo, il prezzo dell’olio di argan è diventato proibitivo. Come si fa a vivere con 200 dhiram, venti euro al mese, domanda Hamid, che fa l’autista accompagnando i viaggiatori all’aereoporto di Marrakech o in altre destinazioni lontane. Lui guadagna bene, ma molti non ce la fanno, lasciano le campagne, provano a raggiungere parenti in Spagna, in Francia, in Italia.
Si vive con poco. Anche il giovane fotografo ammiratore di Klavdij Sluban (grande fotografo parigino di origine slovena), che fra i vicoli della Medina ha aperto una piccola galleria, elegante e timido, di sicuro non vive vendendo le sue belle stampe appese alle pareti. Una, la migliore, riprodotta in un’elegante e laconica locandina, mostra due figure di spalle e sulla parete di fronte, bianca e ravvicinata, tre ombre. Un’immagine surreale.
Anche lui fotografa la città nascosta, oppure il porto, la luce straripante sui gesti del lavoro, i gabbiani e i gatti, i colori saturi o il contrasto in bianco e nero, ma nel paesaggio del suo sguardo si sovrappongono altre sostituzioni, forse immagini della sua infanzia, quando le donne avvolte nelle coperte, misteriose e affamate, erano già scomparse. Solo chi allora le ha viste può rivederle balenare ogni tanto, una donna seduta su un muretto, avvolta in una coperta di lana bianca, tre bambini che giocano accanto a lei e dietro di loro la colata di grigi sul muro altissimo. Lei potrebbe essere la Madonna nel crepuscolo di Nazaret o una donna vissuta a Mogador duecento anni fa. Ma adesso c’è un’altra donna seduta nello stesso posto, seduta su una panchina illuminata da una luce scenografica, che colora di arancio le mura altissime, le figure, le persone, le ombre, è tutto colorato. Guarda nel controluce passare le ombre, è statuaria, coreografica, ma non sembra più una Madonna.