“La forza dell’uomo civile è la legge. La forza del bruto e del mafioso è la violenza fisica e morale. Noi, malgrado quello che si sente dire di alcuni magistrati, abbiamo ancora fiducia nella sola legge degli uomini civili, che alla fine trionfa nello spirito dell’uomo che è capace di sentirne il bene. Temiamo, invece, la violenza perché offende la nostra maniera di vedere e concepire le cose. Lungi dalla perfezione e dall’infallibilità, siamo però in buona fede e non cerchiamo altro che la possibilità di ripresa della nostra gente e, in altre parole, di dare il nostro piccolo contributo all’emancipazione e alla dignità dell’uomo. È solo questo filo conduttore che ci ispira e ci porta nel rischio. Non è colpa nostra sé qualcuno non lo arriva a capire, cioè non arriva a capire che ci sia ogni tanto qualcuno disposto anche a morire per gli altri, per la verità, per la giustizia”
Accursio Miraglia – dall’ultimo comizio tenuto a Sciacca
Il 4 gennaio 1947 a Sciacca, di ritorno da una riunione con i contadini, a soli 51 anni, con una raffica di mitra, veniva assassinato in un agguato mafioso Accursio Miraglia, segretario della Camera del Lavoro e dirigente del Partito Comunista. “Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio” amava ripetere, facendo propria una frase tratta dal romanzo di Ernest Hemingway Per chi suona la campana.
Animato da un profondo sentimento di giustizia sociale, Miraglia si era impegnato a fondo per chiedere il rispetto dei decreti del ministro comunista Fausto Gullo (soprannominato “Ministro dei contadini” per il suo impegno in favore della riforma agraria e contro il latifondismo) che prevedevano la concessione alle cooperative contadine dei terreni incolti o malcoltivati. A tale scopo, il 5 novembre 1945, aveva costituito la cooperativa “Madre Terra” (tuttora attiva con più di mille soci) a cui parteciparono centinaia di braccianti e contadini poveri, riuscendo a fargli assegnare diversi ettari di buona terra. Uno scorno per latifondisti e gabelloti mafiosi, che decisero di metterlo a tacere. Alla vicenda di Accursio Miraglia si ispirerà anche Leonardo Sciascia nello scrivere Il giorno della civetta. Miraglia diventa così, nella finzione letteraria, Salvatore Colasberna, piccolo imprenditore di un paesino siciliano, rispettoso delle leggi e onesto negli affari, ammazzato dalla mafia perché di intralcio ai loschi affari negli appalti pubblici dell’edilizia.
Il contesto storico
Nel 1944, mentre più di mezza Italia è ancora in mano ai nazifascisti, per la Sicilia occupata dagli eserciti alleati era cominciato il dopoguerra. In mezzo a mille contraddizioni riprendeva la vita democratica guidata dal CNL (Comitato di Liberazione Nazionale). Il primo banco di prova fu la necessità di sfamare una popolazione ridotta in miseria. Una questione cruciale che si cercò di affrontare con l’ammasso obbligatorio del grano, istituendo i cosiddetti Granai del Popolo, disposizione non gradita agli agrari e ai gabelloti mafiosi, che preferivano arricchirsi commerciando il grano al mercato nero. Di lì a poco, con la riorganizzazione delle forze sindacali e dei partiti di sinistra, la contrapposizione tra il blocco agrari-mafia e le forze sindacali trovò un nuovo terreno di scontro nelle lotte per l’occupazione dei feudi e la distribuzione della terra ai contadini. L’assassinio di Miraglia, non fu un caso isolato, ma si inserisce in una strategia eversiva per difendere interessi consolidati e impedire l’ascesa al potere dei partiti di sinistra, allora coalizzati nel “Blocco del Popolo”, che risultò essere il primo partito con il 30,38% alle prime elezioni regionali del 20 aprile 1947.
Tra il 1944 e il 1948, caddero sotto i colpi della mafia decine di sindacalisti e militanti comunisti e socialisti, tra i quali: Santi Milisenna, Regalbuto; Andrea Talluto, Montelepre; Agostino D’Alessandria, Ficarazzi; Giorgio Comparetto, Caccamo; Giuseppe Scalia, Cattolica Eraclea; Giuseppe Puntarello, Ventimiglia di Sicilia; Gaetano Guarino, Favara; Pino Camilleri, Naro; Giuseppe Biondo, Santa Ninfa; Giuseppe Pullara e Paolo Farina, Comitini; Nicolò Azoti, Baucina; Pietro Macchiarella, Ficarazzi; Vincenzo Sansone, Villabate; Emanuele Busellini, Altofonte; Michelangelo Salvia, Partinico; Giuseppe Maniaci, Terrasini; Calogero Caiola, S. Giuseppe Jato; Vito Pipitone, Marsala; Epifanio Li Puma, Petralia Soprana; Placido Rizzotto, Corleone; Calogero Cangialosi, Camporeale.
Una strage continua. Le intimidazioni e gli atti terroristici erano cominciati con l’attentato del 16 settembre 1944 a Girolamo Li Causi, all’epoca segretario regionale del Partito Comunista, avvenuto durante un comizio a Villalba; e culminarono nell’eccidio di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947.
L’impegno politico e sindacale
Accursio Miraglia fu un dirigente politico e sindacale di prim’ordine, ma anche un intellettuale raffinato. Occupato senza risparmio di energie nel ruolo di dirigente della camera del lavoro di Sciacca, fu anche imprenditore del settore ittico-conserviero (la città era allora tra le più importanti marinerie d’Italia, con la seconda flotta peschereccia del Paese); direttore dell’ospedale civico; amministratore del teatro “Rossi” – attività che gli permise di conoscere la compagna della vita, Tatiana Klimenko, attrice di una compagnia teatrale russa. Tra tanti carichi di lavoro, però, trovò anche il tempo per coltivare la passione per la poesia, la pittura e la musica (suonava il violino). Vasto il suo impegno nelle attività sociali: avviò una delle prime forme di unione e solidarietà tra i lavoratori della terra, attraverso l’attività cooperativa; ristrutturò con propri fondi una parte dell’orfanotrofio cittadino; inviò periodicamente forniture di generi alimentari all’istituto Boccone del Povero; ma fu soprattutto il punto di riferimento e aiuto per tanta povera gente priva dell’essenziale per vivere.
Anarchico comunista cattolico
Quella di Accursio Miraglia è la storia di un uomo coraggioso, consapevole dei rischi del suo impegno politico; di un sognatore che aspirava ad un mondo più giusto, che amava la vita e il suo prossimo. “Lavoro perché mi servono i soldi per aiutare gli altri. Ho i miei proventi, la mia intelligenza e la mia cultura e la devo mettere a disposizione degli ultimi, che non hanno potuto studiare”. Con questa missione ha vissuto. Finiti i suoi lavori di imprenditore, la sera andava alla Camera del Lavoro per discutere con i compagni e per insegnare a leggere e a scrivere ai contadini ed operai analfabeti, ai quali spiegava anche il senso e i contenuti dei Codici, convinto che il rispetto della legalità fosse la via maestra nella lotta alle ingiustizie. Studente brillante frequentò l’Istituto Tecnico Commerciale di Agrigento, dove si diplomò con il massimo dei voti. Assunto al Credito Italiano di Catania, si distinse nel lavoro, tanto da essere promosso a capufficio e inviato nella sede di Milano. E qui che incontra i movimenti politici organizzati e aderisce al gruppo anarchico di Porta Ticinese, iniziando la sua attività politica e sociale, solidarizzando con la classe operaia che rivendicava salari decenti e una vita più dignitosa in fabbrica.
Entrato in contrasto con i dirigenti della banca per il suo impegno politico, viene licenziato dalla banca e torna a Sciacca, dove promuove diverse attività imprenditoriali e continua il suo impegno politico. È uno dei militanti più attivi nella ricostruzione nel secondo dopoguerra del Partito Comunista, di cui sarà un dirigente a livello provinciale, nonché fondatore della prima Camera del Lavoro siciliana. Memorabile la cavalcata organizzata nel settembre del 1946 per le vie di Sciacca, con più di diecimila persone arrivate da tutta la provincia, per chiedere l’applicazione della legge Gullo sull’assegnazione dei terreni incolti. Una grande manifestazione di forza e determinazione del movimento contadino, che deve aver messo tanta preoccupazione ai grandi proprietari terrieri e ai loro padrini politici.
Era comunista, ma non ateo. Anzi, era cattolico e in numerose lettere fa riferimento a Gesù. Questa sua fede palese, però, non sarà sufficiente a consentirgli un funerale in chiesa. Un parroco bigotto e ottuso rifiutò le esequie religiose perché Miraglia era un comunista. Il funerale civile si tenne presso la Camera del Lavoro e vide una partecipazione imponente. La bara fu portata al cimitero in spalla dai “suoi” contadini affranti dal dolore. Quando il corteo funebre arrivò davanti al cimitero, cadde qualche goccia di pioggia, che bagnò la bara. Allora un anziano contadino esclamò “un ti vosiru benidiciri l’omini, ma ti benediciu Diu”.
La vicenda processuale
Come spesso accade nei delitti che la mafia compie nei piccoli centri, i nomi dei mandanti e degli esecutori erano sulla bocca di tutti. Se così non fosse, peraltro, i delitti di mafia sarebbero privi in buona parte di quella efficacia intimidatoria su cui si basa il potere mafioso. Poco dopo il delitto, la polizia riuscì a identificare e arrestare esecutori e mandanti del crimine, acquisendo anche le confessioni di due mafiosi. Furono arrestati Bartolomeo Oliva, Pellegrino Marciante e Calogero Curreri con l’accusa di essere stati gli esecutori materiali del delitto. Curreri e Marciante confessarono e indicarono come mandanti tre dei più importanti possidenti terrieri di Sciacca e Ribera: Enrico Rossi, Gaetano Parlapiano Vella e il barone Francesco Pasciuta. Vennero anche arrestati come organizzatori Carmelo Di Stefano e Francesco Segreto, considerati i capi delle cosche mafiose di Sciacca e Favara, nonché grandi collettori di voti per alcuni parlamentari della Democrazia Cristiana. In seguito, le dichiarazioni furono ritrattate, accusando la polizia di aver ottenuto le confessioni con la tortura. Il successivo processo a carico degli inquirenti, tuttavia, si concluse con la piena assoluzione degli accusati.
Quindi, non ci furono torture, ciò nonostante il procedimento a carico dei presunti colpevoli non venne più riaperto, ma insabbiato definitivamente. Tra aggiustamenti, colpi di scena e ritrattazioni alla fine nessuno è risultato ufficialmente colpevole. D’altra parte, era il periodo in cui per i benpensanti, gli uomini di potere e la chiesa, la mafia non esisteva: parlare di mafia, per loro, era solo un modo per denigrare la Sicilia ed aiutare la speculazione politica dei comunisti.
Le indagini vennero condotte, dopo una prima fase considerata frettolosa, da investigatori di alto livello, come il commissario di polizia Cataldo Tandoj e il colonnello dei carabinieri Luigi Geronazzo. Alcuni anni dopo, in un’inchiesta sul caso Miraglia pubblicata sull’Unità del 29 gennaio 1963, il giornalista Giorgio Frasca Polara riporta un colloquio tra il colonnello Geronazzo e il dirigente sindacale Girolamo Scaturro (sarà poi deputato regionale del PCI). L’ufficiale mostra un documento dicendo “lei è il primo a vedere questo documento. C’è tutto: le dichiarazioni sono precise e complete. Però vedrà come riusciranno a capovolgere il processo, perché i ruffiani della mafia sono qui dentro, in mezzo a noi. Credo che pesterò molti calli, e per questo probabilmente mi trasferiranno. O mi ammazzeranno”.
Effettivamente l’ufficiale fu trasferito poco dopo nella zona di Partinico, per dare la caccia alla banda di Salvatore Giuliano, finendo assassinato dalla mafia con una raffica di mitra, in un agguato sulla piazza della città. Stessa sorte per il commissario Tandoj, che con Geronazzo aveva indagato sul caso, Verrà ucciso dalla mafia mentre rincasava con la moglie al Viale della Vittoria di Agrigento.