di Alfonso Lentini

C’era una volta un pazzo che viveva nel cerchio più pazzo della pazza Sicilia. Se prendiamo idealmente come centro quel paio di calzoni (cavusi, da cui – più elegantemente – “Caos”) nei cui pressi nacque un noto esperto di sbilanciamenti mentali, e con un grande compasso vi tracciamo intorno una circonferenza, al suo interno inscriveremo un sorprendente affollamento di follie, come ad esempio il fango eternamente ribollente delle Maccalube creato nei pressi di Aragona dalla natura o i ponti stradali interrotti, assurdamente sospesi sul nulla, creati dall’uomo. Questa grande circonferenza lambisce dalle parti di Sciacca la contrada sant’Antonio, dove fu edificato dal pazzo cui stiamo per parlare un “Castello Incantato”. Davanti a tutto questo, si stende un mare cangiante e tellurico dal quale ogni tanto, come squali di pietra, emergono isole provvisorie che dopo qualche anno sprofondano fra le onde e scompaiono (come accadde nel 1831 con l’isola detta Ferdinandea). In quello spazio instabile i mandorli fioriscono già prima di Natale trasformando l’inverno in stralunata primavera. L’aria, a seconda delle stagioni e dei venti, è attraversata dalle più incongrue nevicate: sabbia del deserto, polline, petali, cavallette e forse anche scaglie di luna. Attratto dagli stranezze di quelle terre, lì ha vissuto Empedocle, capace di imprigionare i venti dentro otri gigantesche. Si dice che il mitico Dedalo, in fuga dall’isola di Minosse, abbia concluso il suo volo planando sulla città di Camico, che pare sorgesse in quei territori, a ridosso del monte Cronio.

In questo cerchio il caldo arroventa le pietre e le menti, e la luce è così forte che non rischiara più niente, ma acceca. L’instabilità delle cose si riflette nell’instabilità dei cervelli e può succedere che le parole non coincidano con gli oggetti, i luoghi o le persone a cui si riferiscono. I cittadini hanno un loro nome di battesimo di cui però si infischiano, facendosi chiamare in tutt’altro modo: anche se il tuo nome anagrafico è Salvatore, tutti ti chiamano Antonio, ma che importa?

Fra lo strazio generale, può succedere che bambini vengano sgozzati come capretti e la gente a volte si accoltella senza apparente motivo per fulminei e inspiegabili scatti d’ira, ma nel contempo possono sbocciare all’improvviso gli amori più passionali e stravolgenti. Il Barocco, da quelle parti, è connaturato alla consistenza molecolare delle sabbie, delle marne, dei cristalli di gesso che, insieme alle contorsioni degli olivi saraceni, prolificano e si aggrovigliano invase da rampicanti e insetti. In quei luoghi sembra che alto e basso, notte e giorno, fiele e miele, male e bene siano fisionomie specchianti e intercambiabili.

Siamo insomma nella Sicilia amica del miraggio. Lì, davvero, le cose sono e non sono. E in quel luogo, dalle parti di Sciacca, un uomo amico del miraggio ha fabbricato un suo folle “Castello Incantato”. C’era una volta quest’uomo, il cui nome era Filippo Bentivegna, che iniziò il suo straordinario pellegrinaggio nei turbamenti della mente e dell’arte non partendo, ma ritornando. Non muovendosi, ma decidendo di porre fine al suo girovagare.

Nel 1919 Bentivegna tornava dall’America, dopo un’emigrazione fallita, come quella di tanti suoi conterranei, ma tornava stravolto. Forse un colpo alla testa, o chissà quale altro trauma, gli aveva scheggiato il cervello. Così almeno sembrava. Ma si sa, in storie come questa, le cose sono e non sono.

Sia come sia, a un certo punto acquista per pochi soldi un pezzo di terra presso Sciacca e vi si annida come a voler regredire nel ventre materno. Poverissimo, analfabeta, isolato dal resto del mondo, si mette a fare il contadino e nel contempo dà inizio al suo immobile vagabondare. In quel poderetto – per ben cinquant’anni, sino alla morte avvenuta nel 1967 – scolpisce le sue teste, in proliferazione interminabile e dissennata. Scalpella con mezzi rudimentali e senza preparazione artistica, usa qualunque materiale gli capiti tra le mani: pietra in prevalenza, ma anche tronchi di mandorli e olivi, persino il pelame dei suoi cani. Li agguanta e li tosa in modo da far apparire anche lì, sul loro pelo, le immagini che lo ossessionano (e che spettacolo doveva essere, nelle notti di luna, vedere quelle bestie mostruose, all’apparenza policefale, aggirarsi fra le altre mille teste di pietra!).

Alcune, visibili ancora oggi, sono sculture isolate, pietroni imponenti, accatastati in groviglio. Spesso da una testa di grandi dimensioni ne fuoriescono, a grappoli, altre di ogni forma e misura… A mucchi, murate in forma di piramidi dai mille occhi, formano una specie di parete o catena montuosa e sono disposte ad anfiteatro, intorno all’abitazione che sorge alla sommità del terreno. Ma altre sono state scolpite, a lume di candela, dentro cunicoli che ricordano un labirinto, scavati nelle viscere del monte Cronio, alle cui falde si trova il poderetto e dove, secondo un’ipotesi da non escludere, il mitico Dedalo avrebbe concluso il suo volo. Oltre alle teste poi c’erano “case torri”, oggetti di forma fallica, uccelli, pesci…  

Se gli chiedevano perché passasse le sue giornate in un’attività così priva di senso, rispondeva con parole incomprensibili. Ma intanto le sue opere, anche in forza della prolificazione interminabile, acquistavano un tale impatto visivo che nessuno, visitando quel luogo, poteva uscirne senza esserne profondamente segnato. Nasce così il mito, un mito tanto iperbolico e deformante che ormai è impossibile ricostruire i contorni reali degli eventi.

Si faceva chiamare “Signore delle Teste” e si comportava da sovrano assoluto, impugnando come uno scettro un bastone e pretendeva una venerazione che i più gli riconoscevano per scherzo. Ma sta di fatto che dopo la morte di Bentivegna, Jean Dubuffet ha inserito nella sua Collection de l’Art Brut, a Losanna, alcune sue sculture, definendole fra le migliori dell’intera raccolta (che oggi ammonta a circa 30.000 opere). Fra le migliori: in quanto, come dice Lucianne Peiry, direttrice della collezione, “Bentivegna ha elaborato un universo personale ed originale, mostrando una libertà e un’esultanza fuori del comune”.[1]

C’era una volta un Castello Incantato, ma gli anni passano. Oltre che a Losanna, dove sono finite le opere del Signore delle Teste? Chi ne conserva memoria? Il Castello Incantato esiste ancora? Sì e no. Il luogo, dalle parti di Sciacca, è attualmente compresso in una struttura di discutibile valore, la memoria svapora, ma le teste almeno in parte sono ancora là. Occhieggiano in coro, guardiane di se stesse. Raccontano la moltiplicazione e lo sgretolamento delle identità, le scissioni e le specchiature infinite dell’io. Schegge di un “museo delle ossessioni”, mettono in atto un misterioso corpo a corpo con altre ossessioni, quelle che hanno attraversato più in grande il Novecento degli artisti, dei poeti e dei filosofi.

Il fatto è che molta arte (che sia o non sia Brut, cioè pazza, selvatica, brutale, come quella che piaceva a Dubuffet) si pone come corpo estraneo rispetto alla “positività” del mondo e si fa consapevole interprete di una “perdita del senso”. I volti dei cubisti che sembrano “tagliati con l’accetta”, lo sgretolamento della forma che esplode nell’action painting di Pollock, la scrittura di Joice, di Artaud: sono solo alcuni tra gli innumerevoli esempi di arte che vuole raccontare le derive dell’io e l’”impazzimento” dei cosmi.

Filippo Bentivegna, il Matto, naturalmente non possedeva alcuna conoscenza di tutto ciò, era un analfabeta, tagliato fuori dal mondo. Chiuso nel suo poderetto, rintanato nel suo polveroso e minuscolo labirinto, lontanissimo dai luoghi ufficiali dell’elaborazione culturale, ignorava del tutto gli arrovellamenti artistici e filosofici del suo secolo. Eppure, forse aiutato – perché no? – dal Dedalo fuggitivo che aleggia ancora oggi in quelle contrade, ha imparato a raccontare un suo e un nostro Labirinto. C’è di mezzo, appunto – come sostiene Eva di Stefano riprendendo il pensiero di Szeemann – il concetto di “ossessione”, da intendere non tanto in accezione negativa, quanto come concentrazione di energia e desiderio. E questo “vale allo stesso modo sia per gli outsiders che per gli artisti di mestiere, abbattendo le vecchie barriere che i conformismi di molti storici dell’arte tengono generalmente ancora ben salde.”[2]

In sotterranea sintonia con un Novecento di cui fu inconsapevole figlio, il Signore delle Teste ha vissuto la sua personale “perdita di senso”, l’ha percepita e l’ha espressa con un’intensità fuori del comune. Dentro di essa ha condotto un drammatico lavoro di scavo, percorrendola sino in fondo, braccandola, esplorandola, alla ricerca di quel canto interno delle cose che solo gli artisti sanno percepire. C’era una volta un pazzo.


[1] Lucienne Peiry, in AA VV, Ritratti d’artista, Filippo Bentivegna, a cura di Giulia Ingarao, Palermo 2007

[2] Eva di Stefano, Irregolari, Art Brut e Outsider Art in Sicilia, Palermo, 2008

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