di Nuccio Dispenza
“Gigiù venne a prendermi a Torino con la sua bella auto e mi porta a Druento, un paese come tanti altri della cintura torinese. Con orgoglio, mi fece visitare la sua bella pasticceria, il laboratorio dove lui, con le sue grosse mani piene di calli, faceva buonissimi dolci di ricotta e altre prelibatezze della nostra pasticceria”. Di Giugiù Dispenza chiedo all’amico Giovanni, che è memoria vivente di Agrigento e di agrigentini, anche i tanti della diaspora. Mi incuriosisce la sua storia, mi incuriosisce che lui ed io si abbia lo stesso cognome, pure con quella z al posto della s che siamo stati sempre costretti a sottolineare. Se ci fosse stato ancora mio padre, mi avrebbe risposto, detto senza tentennamenti “a quali Dispenza apparteneva Giugiù”. In assenza, mi piace pensare che tra lui e me, chissà, ci sia un legame familiare. Perché la sua storia è bella, forse come tante altre, certo, ma è una di quelle piccole storie di lavoro e di coraggio che per me – ne sono sempre stato convinto – fanno la grande Storia.
L’amico Giovanni mi dice qualcosa in più di questo Giugiù Dispenza, già carpentiere, emigrato nei primi anni Settanta in Piemonte. Uno tra tanti – e tra questi lo zio di Giovanni – a Torino, vuoi in uno di quegli appartamenti con ballatoio, su cortili così distanti dai nostri cortili, vuoi in una casa di quelle periferie che sono paesi a parte. Di Giugiù pasticciere avevo trovato traccia, per caso, nella piccola, lontana cronaca di un giornale locale torinese. Giugiù, pasticciere siciliano è morto a 80 anni e il giornale piemontese gli rende onore. Al suo lavoro, a quella sua passione che rendeva dolci e gioiose le domeniche di un Piemonte così distante e diverso da quella Agrigento dove – quando era ancora in grado di farlo – Giugiù tornava. Tre, quattro volte all’anno, in auto, anche quella una sua passione. Giugiù partiva al volante della sua Argenta e prima di rientrare al Nord faceva scorte di ricotta e di mandorle. Altri tempi. Lui amava i dettagli, a lui piaceva soddisfare la sua clientela, i suoi dolci siciliani dovevano essere anche cartolina e biglietto da visita. Era felice quando i clienti lo cercavano dietro il banco per fargli i complimenti. Così come era felice quando, la domenica, regalava una “brioscia” ad ogni bambino che passava davanti al suo negozio. Radioso quando vedeva la casa piena di gente, circondato da parenti e amici. Ad Agrigento aveva lasciato tre sorelle che nel tempo si erano spente, una dietro l’altro. I viaggi in Sicilia sempre più rari. Gigiù si era fatto vecchio ed anche per questo limitava i rienti in Sicilia, fino ad interromperli, con dispiacere. In Piemonte c’era da badare ai due figli, guidare Vincenzo e Franco: una pasticceria ciascuno, entrambi nella cintura torinese, lì dove era diventato famoso. Famoso anche a Torino, in città. L’amico Giovanni mi racconta ancora di quella volta, 35 anni addietro, quando andò a trovarlo. “Anzi venne lui a prendermi a Torino perché passassi una giornata con lui, con la sua famiglia…Prima la visita al laboratorio, alla pasticceria, poi a casa…Ricordo che fu una bella giornata, un fantastico pranzo con la sua famiglia, con Rosalia, la moglie… Giugiù era felice che io fossi li, con lui, con loro. Una giornata intera insieme a parlare in siciliano, dialetto che lui adorava, come adorava la sua Agrigento…Una persona dolce ma anche molto intelligente…”
Quella di Gerlando Dispenza è una storia d’altri tempi. Di quando gli azzardi erano nostri, e spesso venivano premiati. Senza scuola, carpentiere, chi mai l’avrebbe detto che la ” Pasticceria Lia”( dedicata alla moglie), a Druento e quella di Savonera, tra Venaria e Collegno, sarebbero stati promossi profumato monumento di quest’angolo di Piemonte? “Giugiù il siciliano” per le paste della domenica, per battesimi, comunioni, matrimoni e grandi occasioni familiari. Paste e non pasticcini, perché le sue non erano piccole, come invece ogni piemontese doc è abituato a pensare.
“Giugiù diceva sempre che la gente doveva sporcarsi il muso con quelle paste. Doveva godersele, non solo mangiarsele”. Probabilmente lo diceva in italiano, ma lo pensava in siciliano, con due s, “mussu”. Lavorare stanca, per citare un grande piemontese, e dopo 35 anni e passa di pasticceria, senza contare gli anni assai più duri e senza soddisfazioni da carpentiere, Giugiù un giorno aveva smesso. Chiusa la prima pasticceria, per i figli aveva tenuto solo quella di Savonera. Al funerale di Giugiù, in tempo di pandemia, non c’era la tante gente che avrebbe voluto salutare quell’amato pasticciere siciliano. Ma c’era il sindaco, a dirgli bravo e grazie a nome di tutti.