di Alberto Rosati
Pubblichiamo la seconda parte di un testo scritto per gli studenti da Alberto Rosati, già docente presso il liceo scientifico ‘Leonardo’ di Agrigento, oggi residente in provincia di Siena. Nei prossimi giorni l’ultima parte di questa ‘lezione a distanza’ sul fenomeno mafioso.
Eccoci al secondo punto: perché bisogna opporsi alla mafia?
La risposta è semplice: per preservare gli alti livelli di qualità della vita tipici delle società evolute.
È chiaro infatti che in società basate sulla violenza e sulla corruzione, non sul merito, i livelli di qualità della vita sono, nel complesso, molto bassi. Sicché, oltre alle intuibili ragioni morali, pure importanti ma oggi non sempre condivise, raggiungere e conservare un alto livello di qualità della vita è il motivo principale per cui occorre opporsi al diffondersi della mentalità mafiosa, e perciò della mafia. Spiegando meglio: per livello di qualità della vita si intende il livello di benessere proprio di una certa società; che dipende, senza dubbio, dalla funzionalità che caratterizza i settori cardine della convivenza civile: i più importanti, tramite i quali tale livello si misura sono la sanità, il lavoro, l’istruzione, la sicurezza, l’economia. Converrà parlarne, sia pure a volo d’aquila.
– Un buon sistema sanitario garantisce a tutti i cittadini, entro i limiti delle conoscenze raggiunte dalla scienza medica, una vita lunga e di qualità. Orbene, se questo delicatissimo sistema non si regge sulla competenza, ma sul favoritismo o addirittura sulla minaccia, il benessere del cittadino non è affatto tutelato. Questo accade soprattutto nei luoghi in cui prevale la mentalità mafiosa. Per dirne una: sarà una fatalità imposta dal destino che, secondo i rilievi compiuti dall’Istituto centrale di statistica, l’aspettativa media di vita in Toscana (ai primi posti in Italia) sia di 81 anni, mentre in Campania (insieme a Calabria e Sicilia occupa, guarda caso, uno degli ultimi tre posti) è di 78 anni e mezzo?
– Si può fare un discorso analogo per un altro bene fondamentale: il lavoro, che dovrebbe essere conquistato attraverso il merito e non attraverso i favoritismi e gli arbitrî che connotano le società di mafia soprattutto nel settore pubblico. Le conseguenze? Non occorre dilungarsi: se i diversi tipi di lavoro non sono svolti da persone competenti, in questo tipo di società tutto funziona poco e male.
– E ancora, l’istruzione, cioè il sistema attraverso il quale si acquisiscono le competenze necessarie a rendere operativi i molteplici settori in cui si articolano società complesse come quelle odierne. In fondo, si è sempre lì. In una società di mafia può succedere quel che è capitato all’autore di queste pagine quando fu nominato commissario esaminatore nel concorso a cattedre di Filosofia e Storia a Napoli: livello di preparazione del 70% dei candidati (gli aspiranti professori, in caso di successo titolari sino alla pensione) prossimo allo zero: inferiore a quello dei pochi alunni ai quali dava il “quattro” per non mortificarli col “due”; e poi minacce della camorra nero su bianco e agenti di polizia mitragliette a tracolla a far la guardia sull’uscio dell’istituto nel quale si svolgevano gli esami.
– Inoltre, la sicurezza. Su questo tipo di rischio, frequente anche nelle zone controllate dalla mafia siciliana, un’esperienza personale sarà, ancora una volta, più illuminante di cento teorie. L’autore si riferisce alla strage di Porto Empedocle (la prima, perché ce ne sarà anche un’altra), nella quale si trovò coinvolto mentre era a cena con amici in una trattoria prospiciente alla piazza.
Lo srotolarsi metallico, stridente e fastidioso, di una saracinesca calata di colpo lì, proprio a due passi, interruppe il chiacchierio ben lubrificato dalle copiose libagioni con le quali stavamo accompagnando degnamente le grigliate di pesce che l’instancabile oste ammanniva a ripetizione. Eravamo un bel po’ di amici, in quella tavolata, per la cena di addio all’estate. Subacquei incalliti (la materia prima l’avevamo fornita noi), ci davamo dentro senza risparmiarci, a tutto fuoco. Frizzi, lazzi e sberleffi si incrociavano nel rievocare le imprese di pesca e la sala risuonava di voci.
Dopo una quindicina d’anni di permanenza in Sicilia mi ero ormai assuefatto (e rassegnato) alla miriade di piccole mancanze di riguardo per la privacy altrui tipiche del costume locale, ma il rumore fu così insistito e sgradevole che non riuscii a trattenermi: «Porca miseria! Potrebbero almeno accompagnarla un po’, quella saracinesca, prima di mollarla giù!»
Mi guardai in giro a sentire cosa ne pensassero gli altri… e restai ammutolito anch’io. Un silenzio irreale aveva pietrificato la sala, come se la pellicola di un vecchio film si fosse inceppata su un fotogramma: alcuni con la forchetta inchiodata a metà tra piatto e bocca; altri fissi in smorfie le più strane e ridicole mentre masticavano; altri ancora nell’atto di accompagnare a gesti il discorso interrotto…
Durò una decina di secondi, forse meno… poi andò via la luce.
Un’altra manciata, più lunga (o almeno così mi parve) di secondi… Tornò, e Attilio rimise in moto l’azione: «Albe’, chi minchia va dicennu!» mi corresse con voce appena più alta del normale. «Cca sparanu!»
Lo guardai: pronto a cogliere nella sua espressione i segni del fare beffardo che gli era consueto. Non ne trovai, e fu il segnale.
Il proprietario lasciò andare quel che aveva in mano (ne risento il tonfo, non ricordo cosa) e si precipitò a sbarrare la porta. Si girò e disse in tono piatto (non le ho dimenticate, queste sue parole): «Dda fora stannu murennu cristiani».
Istanti di incredulità da parte mia, e voci e imprecazioni e lamenti che si sovrapponevano tra la gente smarrita in una confusione generale. Alcune delle donne cominciarono a piangere.
Poi, un frenetico susseguirsi di colpi all’uscio e una voce femminile che si lamentava tra i singhiozzi: «Maria, Maria, n’ammazzanu tutti…»
Entrai in automatico. Mi ritrovai alla porta cercando di fare scorrere il paletto e di liberarmi dall’oste che, avvinghiatosi al mio braccio, tentava di impedirmelo: «Ma chi sta facennu! Ni voli fari ammazzari! Ni voli fari ammazzari!» ripeteva stridulo. Sembrava un disco rotto. Non ce l’avrei mai fatta se non fosse stato per Paolo, una specie di marcantonio che mi ritrovai a fianco. Lo afferrò di peso, lo strappò via come un fuscello e lo spintonò in là mentre gli urlava: «Levati di ddocu, o ti fazzu nivuru pi daveru!»
Aprimmo e ci si aggrappò addosso una donna. La tirammo dentro e l’oste si precipitò a richiudere. Non ricordo se fosse giovane o vecchia, alta o bassa, bella o brutta, bionda o mora. Non ricordo nulla di lei, tranne la chiazza rossa impressa sul davanti del vestito e nei miei occhi. E le parole che continuava a ripetere in una litania spenta e monocorde dondolandosi sulla seggiola: «Mi murì ncoddu… mi murì ncoddu… mi murì ncoddu…» Non era suo, quel sangue.
Ventuno settembre 1986: la sera della strage di Porto Empedocle, la prima: il più cruento degli episodi che segnarono la faida tra cosche rivali, l’una da sempre affiliata a cosa nostra, l’altra legata alla stidda, una organizzazione mafiosa concorrente. Morirono sei persone, due delle quali non c’entravano nulla nello scontro che contrappose i due gruppi.
Giorni dopo qualcuno mi informò, con un tono stupito in cui mi parve di cogliere una sfumatura di malcelata ammirazione, che i killer avevano telefonato ai giornali scusandosi per le vittime innocenti.
«Di che ti meravigli» replicai d’impeto fremendo di rabbia. Sono “uomini d’onore”, no?»
In effetti, c’era poco di cui stupirsi se Giuseppe Pitrè, studioso siciliano apologeta della forma mentis mafiosa, già a fine Ottocento scriveva con orgoglio: il mafioso «sa farsi ragione da sé, e quando non ne ha la forza lo fa col mezzo di altri de’ medesimi pensamenti, del medesimo sentire». Un “fai da te” in prima o per interposta persona ritenuto segno di coraggio e di valore, con le conseguenze del caso. Per dirne una, stavolta non cruenta e tuttavia esemplare di un certo tipo di mentalità: Schillaci, bravo giovane e palermitano purosangue, a Pioli, che lo aveva marcato duramente per l’intera partita in un Bologna-Juve dei primissimi anni ’90, non urla a fine incontro (come sarebbe stato “normale” in un impeto d’ira): «T’ammazzu!», bensì «Ti fazzu ammazzari!» O, secondo un’altra versione : «Ti fazzu sparari!» (cfr. “la Repubblica”, 26-2-2011). In via incidentale, a conferma: il linguaggio è uno degli indicatori più attendibili del modo di pensare – e perciò di essere – di una società. Ma c’è poco di cui meravigliarsi se il Pitrè, studioso siciliano apologeta della forma mentis mafiosa, dice con orgoglio: «Il mafioso sa farsi giustizia da sé, e quando non ne ha la forza si avvale di persone dei medesimi pensamenti, del medesimo sentire». Un “fai da te” in prima o per interposta persona che testimonia un modo di pensare diffuso.
– Infine, l’economia. La mafia tende oggi a controllare i settori che producono ricchezza, siano illeciti o leciti. Tra i primi c’è il traffico di sostanze stupefacenti: una delle sue principali fonti di lucro, e lo strumento che condanna alla rovina e persino alla morte tanti giovani. Dalle indagini compiute qualche anno fa da un istituto di ricerca (il Cnr di Pisa), in Italia 70.000= ragazzi in età scolare iniziano la loro giornata fumando lo spinello: che in non pochi casi è, a lungo andare, la porta d’ingresso alle droghe pesanti; e in più – lo si diceva – incrementa le ricchezze della mafia, e quindi la sua diffusione e il suo potere.
Quanto alla Toscana (una delle regioni presunte “immuni”), l’Agenzia regionale della Sanità – che, con cadenza pressoché triennale, a partire dal 2005 conduce lo studio Edit (Epidemiologia dei determinanti dell’infortunistica stradale in Toscana) – sottolinea (Edit 2015) che il 40% degli studenti toscani ha assunto almeno una sostanza illegale nella vita, con un incremento del 4% rispetto al 2011. Nel 93% dei casi è la cannabis che si sperimenta prima: per i due terzi degli intervistati l’esordio è avvenuto entro i quindici anni. Dal confronto coi dati 2016 di Espad Italia (European school survey project on alcohol and other drugs) relativi alle singole sostanze, le percentuali toscane sono in linea o appena al di sotto della media nazionale per cocaina, stimolanti, allucinogeni ed eroina; lievemente al di sopra per la cannabis. Ma, soprattutto, da non sottovalutare l’uso crescente dei nuovi prodotti psicoattivi sintetici (Nps): che imitano quelli di origine vegetale. Pur se i dati disponibili sono incompleti, la richiesta è in forte aumento: se ne sarebbero già individuati a centinaia. Ed è una novità inquietante se si pensa che la repentina ascesa della loro diffusione è facilitata dallo sviluppo del mercato on line. L’acquisto via web consente infatti notevoli risparmi economici e di tempo, e rischi minori sul piano legale. I risultati più recenti dell’indagine dicono che, nel 2018, il panorama non registra segnali significativi di miglioramento. Dietro le apparenze di una “normalità” fittizia, si nasconde invece lo stabilizzarsi di realtà allarmanti: in una con la crisi – morale prima che economica – segno evidente, e concausa, dei problemi in cui si dibatte l’universo giovanile.
Poi, la pratica delle estorsioni a danno dei commercianti, molto diffusa per non dire “normale” nel Meridione. E quelli che non pagano? Corrono il rischio di vedersi la bottega incendiata, di essere “gambizzati” o peggio. Per dirne una, episodi del genere si verificano in modo sporadico anche in Toscana: valga per tutti l’aggressione subita da una merciaia di Campi Bisenzio (in pratica, Firenze) che si era rifiutata di pagare il “pizzo”.
Specialmente pericoloso, ancora, è il traffico e lo smaltimento di rifiuti tossici. Si ricordi il pentito Schiavone. È anche quello che ha denunziato l’esistenza della cosiddetta “terra dei fuochi”: un vastissimo territorio a cavallo tra le province di Napoli e di Caserta in cui sono stati interrati milioni di tonnellate di rifiuti tossici. Con su, spesso, coltivazioni di broccoli, carciofi e altri ortaggi.1 Ebbene, sarà un caso se, da una ricerca condotta dall’Istituto superiore della sanità (2017), l’incidenza di tumori in queste zone risulta ben superiore alla media nazionale, mentre in provincia di Caserta è più elevata per i bambini di età inferiore a un anno?2 Attenzione però, non si indulga alle illusioni: anche nella Tuscia felix (“la Toscana felice”, o presunta tale) sono state scoperte discariche abusive di questo tipo (ma non di questa dimensione, o, almeno, non ancora). In altri termini: si vada avanti così, convinti di essere immuni, e si rischia di trovarsi, fra non molto, in condizioni simili a quelle che sono la normalità in Campania.
Tra i settori leciti dell’economia spicca il controllo degli appalti: ottenuto attraverso la minaccia unita alla corruzione. Sicché i lavori pubblici (strade, ponti, scuole) eseguiti da imprese mafiose sono ben al di sotto dei livelli minimi di qualità richiesti dalla legge. Conseguenze? Le imprese oneste e i loro dipendenti si vedono sottratte le commesse alle quali avrebbero diritto; i manufatti si deteriorano in modo rapido, comportano incessanti lavori di recupero e quindi enormi spese aggiuntive a carico dei cittadini che pagano le tasse; e infine, in taluni casi, delle persone ci rimettono la vita. Si pensi al mancato rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro; e alle alluvioni dovute ad argini mal fatti o al crollo di viadotti per costruire i quali si usa sabbia al posto di cemento; e ai poveracci che ne fanno le spese.
E poi, l’acquisizione e il controllo di aziende in difficoltà: agevole soprattutto in tempi di crisi come il periodo che – forse – si è appena superato. Il procedimento è semplice: i mafiosi dispongono di enormi capitali, ottenuti per vie illecite, da immettere nei circuiti dell’economia legale per “ripulirli”, amministrarli e goderne alla luce del sole, e offrono ai titolari di aziende in crisi il sostegno economico necessario a farle sopravvivere; ne assumono la gestione sino a estrometterli e le trasformano in una ulteriore fonte di introiti per le loro finanze: tanto più cospicui perché le imprese controllate dalla mafia non rispettano gli standard minimi di sicurezza e di qualità previsti dalla legge. Questo anzitutto a danno di chi vi lavora; ma anche degli ignari consumatori: sia in termini economici, sia – ed è il pericolo più grave – in termini di salute quando si tratta di aziende agro-alimentari.
Sorge quindi spontanea la domanda: come è possibile che tutto questo accada? Due fattori soprattutto vi concorrono: in primo luogo il disinteresse della maggior parte dell’opinione pubblica. In termini sbrigativi, la gente se ne infischia perché ignora o sottovaluta il rapporto di proporzionalità inversa che lega lo sviluppo delle mafie ai livelli di qualità della vita: quanto più diffusa è la mentalità mafiosa tanto meno questi livelli sono elevati. E poi – altrettanto rilevanti – i silenzi e le complicità di frange non trascurabili della politica e della burocrazia. Soprattutto nel Meridione, per i motivi storici e culturali ai quali si è accennato.
Ma anche in regioni come la Toscana le infiltrazioni sono sempre più frequenti: pensare di essere immuni dal contagio è un’illusione quanto mai pericolosa. In realtà non è così: lo dice la cronaca, quel materiale grezzo col quale si costruisce la storia. Due esempi, tra i molti disponibili, relativi a regioni considerate refrattarie per cultura e tradizione: nella civile Lombardia, che insieme alla Toscana è stata antesignana di virtù pubbliche, la direttrice del carcere che ospita un capo della ’ndrangheta si è vista recapitare in busta tre pallottole inesplose: in perfetto stile mafioso. A Monza: altro che Lombardia! Provincia di Reggio Calabria vien da dire. E ancora, nella civilissima Emilia, l’amministrazione comunale di Brescello è stata sciolta pochi anni fa per inquinamento da mafia.
In Toscana non ci sono, o almeno non ancora, episodi così eclatanti, ma non mancano i segnali di allarme: sempre più invasive appaiono le infiltrazioni della mafia cinese nei settori della prostituzione e dell’immigrazione clandestina, mentre quelle autoctone (mafia siciliana, camorra ’ndrangheta e sacra corona unita, la new entry pugliese) si ritagliano la loro fetta di torta soprattutto nel traffico di droga e nell’acquisto di aziende decotte. Di conseguenza, non sono mancati, soprattutto in passato, sanguinosi regolamenti di conti tra bande rivali.
Qualche numero sarà utile a chiarire le idee. Secondo un rapporto della Direzione investigativa antimafia risalente a qualche anno fa, le associazioni mafiose storicamente coinvolte negli ultimi decenni in crimini accertati sono ben 116 in Toscana, di cui 64 nella sola provincia di Firenze (24 cosche siciliane, 22 clan camorristici, 15 ̓ndrine calabresi, 2 gruppi pugliesi e la banda della Magliana); mentre quelle tuttora operanti – censite, su incarico della Regione, in una ricerca della Normale di Pisa presentata alla stampa nel settembre 2018 – sarebbero 78, metà delle quali legate alla ’ndrangheta. Sono cifre che colgono di sorpresa un’opinione pubblica sprovveduta e inducono a riflettere. Anche perché la situazione non è certo migliorata: lo conferma – paradossalmente – il netto calo, negli ultimi anni, di episodi cruenti, che testimonia come le opposte fazioni abbiano ritenuto più conveniente spartirsi in modo pacifico il territorio per suscitare minore allarme sociale.
Detto a chiare lettere, la Toscana è solo un esempio paradigmatico: in condizioni simili si trovano ormai numerose regioni presunte immuni.