di Cetta Brancato
Prima di Natale sarò in grado di correre. Con quel passo di leggero affanno che mi zampetta fra i piedi, un misurato dolore sulla schiena e i glutei duri.
Come questi cani dal pelo bastardo e lucidissimo che girano nel parcheggio fra le ruote delle biciclette. Senza fatica. Forse per essere nati nel quartiere.
La verdura nei mercati profuma d’acqua d’autunno come la coda dei cani che, adesso, abbaiano alle auto che passano. Ma non a tutte, stabilendo misteriosamente chi sia loro amico e seguendo la svogliata arguzia dell’asfalto che chiamiamo istinto.
Rumore di ferro, di una cicca spenta, di bar chiusi, buoni per l’asporto.
Il tempo è vergato da insidie ansiose e inconsuete prospettive di futuro.
Il virus è una mosca incoronata con la sola necessità di sopravvivere. Siamo faccia a faccia: le nostre cellule e il suo artiglio concavo, ben composto.
Ma si può correre. Ancora guidati dal cielo dell’inverno che si fa strada. Con pochi abiti addosso, alleggeriti appena di speranze. Schivi dall’illusione delle rade, in un tempo che precipita e non vedo, da qualunque parte io lo guardi.
I cani attendono il padrone.
Io correrò con un sorriso di laguna che non raggiunge il mare, adombrando il deforme torrione della mente.
I poeti sono come gli schizofrenici: hanno vita dall’altra parte della vita. Scegliere è difficile. Come fare una corsa veloce, più veloce.
La solitudine non ride. Afferra per la schiena in questo bianchissimo novembre. In un tempo di poca voce nella città deserta troppo presto, sudario di piccoli rumori.
In ogni angolo c’è quasi un’assenza, come la signora che confezionava confetti sulla piazza, adesso piena di roba facile, da scambio.
Abbiamo inenarrabili scarti nel cuore come i primi addobbi, fin troppo presto esposti, perché, da tempo, non c’è più la festa.
Ci accarezza la morte. Contemporaneamente. Come mai pensavamo che accedesse. E lo sappiamo tutti. Abituati al mercato come bene, non pensavamo che la peste avesse la stessa velocità globale che ci rassegna uguali. E ci rende lontani, visibilmente, come già eravamo.
In fondo vivere è disprezzare il limbo.
Ma, prima di Natale, correrò nella generosa primavera di dicembre, scartando itinerari e felicità. E la memoria che ci tiene immobili.
Con altro passo andare. Altra lunghezza d’anima, si è visto, è indispensabile.