di Tano Siracusa
La distanza fisica (quella “sociale” è altra cosa e le preesisteva), sta modificando non poco le forme della comunicazione. Ogni tanto per strada uno sguardo da sopra una mascherina, il cenno di una mano, sembrano rivolgere un saluto che si ricambia volentieri, anche se non si sa bene chi si stia salutando.
E’ la disciplina dei corpi, ciò che residua nei loro sguardi, è questo condizionamento che pare stia arretrando.
Può essere interessante osservare le nuove modalità della comunicazione imposte dalla pandemia in contesti dove il linguaggio dei corpi, la ‘fisicità’ della comunicazione, è particolarmente rilevante e non rigidimente codificata come nei luoghi di lavoro. Per esempio nel “gruppo politico” o di volontariato.
Come si sa ‘il gruppo politico’, come altri contesti ‘scelti’, elettivi, è un luogo in cui maturano grandi passioni. Amori, rivalità, amicizie, rancori tenaci. In tutti i partiti di tutti gli schieramenti politici è stato così. Basti pensare a personaggi diversissimi come Occhetto e Craxi, due grandi sconfitti della sinistra, proprio per questo assai espliciti nei giudizi sui loro compagni di partito. O alle terribili lettere di Moro ai suoi ‘amici’ della D.C..
Ma sia al centro che in periferia il ‘gruppo politico’ operava allora ‘dal vivo’, la verticalità della informazione televisiva non impediva la circolarità di una comunicazione i cui codici non potevano prescindere dal linguaggio dei corpi. Anche soltanto dal reciproco riconoscimento affidato agli sguardi. Ci si incontrava infatti prima o poi in sezione o in piazza o a Montecitorio e se all’amico, compagno o camerata si era detto uno sproposito, lo si era mandato al diavolo in malo modo, bisognava pagare il dazio di uno sguardo, l’imbarazzo di un chiarimento. Raramente ci si menava, prevalevano le buone maniere, il genio minore dell’ipocrisia, l’astuzia della volpe sulla violenza del leone.
Oggi la smaterializzazione delle relazioni personali, il ruolo pressoché esclusivo delle parole lette o ascoltate, l’assenza dei corpi, degli sguardi a integrarne il senso, favoriscono una comunicazione tanto disinibita quanto spesso irrelata.
La messa fuori gioco della fisicità ( e la sua messa al riparo anche grazie agli apparati tecnologici) favorisce la dilatazione della dimensione linguistica, simbolica, la violenza e la leggerezza delle parole, dei silenzi, delle mancate spiegazioni, trasformando le clamorose risse novecentesche in giostre ariostesche dove si appare e scompare come nelle favole, dove la realtà degli altri e la propria, la comune corporeità, se non viene trasfigurata nella luminosità televisiva viene assunta e dilegua in entità astratte e fluide, cui corrispondono profili social con nomi veri e inventati, individuali e di gruppo, sigle, acronimi. Entità di parole spesso mai suonate, lasciate lì, inerti, soggetti immateriali che possono aggregarsi, azzuffarsi, scomporsi e ricomporsi senza che una remota corporeità umana avverta neppure l’eco di quelle avventure.
C’è da chiedersi cosa diventerebbe la politica se questo processo di ‘distanziamento’ e sterilizzazione dei rapporti personali innescato dalla pandemia dovesse rendersi autonomo e strutturarsi. E già nuovi profeti vagheggiano guerre senza l’ingombro dei corpi, annunciano il sogno platonico finalmente realizzato della separazione e liberazione dell’anima dall’ottusità del corpo ancora vivo e sensibile. La via d’uscita dalla caverna e dalla ferina inconsapevolezza.
Ci sarebbe (anche) del bene in questa tendenziale disumanizzazione dei rapporti personali in quanto ci sarebbe (anche) del male – ipocrisia, invidie, violenza – nei rapporti umani all’interno del “gruppo politico” e delle aggregazioni elettive in generale. In attesa di un nuovo Machiavelli si possono solo azzardare ipotesi meno impegnative.
Per esempio che se la comunicazione mediata dalla tecnologia e affidata pressoché esclusivamente alle parole non neutralizzerà le guerre, può tuttavia impedire alcune forme meno clamorose e devastanti di violenza fisica, finora persino storicamente necessarie, a cominciare da quella esercitata dagli sguardi.
Se il vedere è innocente, il guardare infatti non lo è. Lo sguardo è sospettoso ed è sospetto. Implica la sorveglianza, il controllo (fino al sadismo) dell’altro, ma ne sollecita anche il riconoscimento: comanda la fatica del riconoscimento, la rottura dell’involucro narcisistico.
Da dietro le mascherine gli sguardi dei passanti segnalano la presenza massiccia dei corpi, il rimbalzo di un’alterità ingombrante, impegnativa, macchine di segni e di senso, il passo elastico di un ragazzino, la tristezza per Maradona nel suo sguardo, il gesto di intesa che un anziano rivolge a un cane, qualcuno che saluta e non si riconosce, neppure quando ci si abbassa la mascherina e si sorride.