di Tano Siracusa
Prima c’erano i fondachi, posti di ristoro per i carrettieri che dovevano raggiungere Girgenti, e vi sorgevano le filande dove lavoravano la seta proveniente dalle campagne di Montaperto. Villa Seta nasce così, attorno alla metà dell’800. La chiesetta, una villa signorile, un grappolo di case fra la Marina e Girgenti.
Poi nel 1966 la frana. Viene costruita la nuova Villa Seta. Così scrive Giuseppe Abbate: “ L’ISES, ente fiduciario del Ministero dei Lavori Pubblici, affida la progettazione urbanistica e il coordinamento del nuovo insediamento al professore Mario Ghio che si avvale della collaborazione di altri illustri architetti tra i quali Vittoria Calzolari, Sergio Lenci, Franco Berarducci e i siciliani Roberto Calandra e Antonio Bonafede… La planimetria di progetto propone un asse viario in direzione est-ovest lungo cui si aggancia l’edificio destinato ad ospitare le attività commerciali, tre attrezzature scolastiche, le aree verdi e a parcheggio… Si tratta di un progetto di qualità, che propone una dimensione urbana complessa che però, come del resto è accaduto per altri interventi pubblici realizzati nel Mezzogiorno, verrà realizzato con grande lentezza e a stralci. Alla mancanza di una cultura del bene collettivo, del senso di appartenenza e di responsabilità civile è certamente imputabile l’attuale immagine del quartiere di Villaseta, molto diversa da quella ipotizzata nel progetto originario.” (https://pure.unipa.it/it/publications/villaseta-da-quartiere-modello-a-luogo-di-marginalit%C3%A3-e-degrado)
Il testo prosegue descrivendo le modificazioni, spesso abusive, operate dai residenti.
“Mancanza di una cultura del bene collettivo”, scrive dunque Abbate: difficile non essere d’accordo.
Tuttavia la storia di Villa Seta non è stata ancora raccontata e prima o poi qualcuno dovrà farlo. La storia di come si è formata e trasformata questa comunità durante il mezzo secolo trascorso. Due generazioni.
Di sicuro le prime famiglie che vanno ad abitarla dopo la frana vengono da Rabato e da santa Croce, dove lo spirito comunitario, di appartenenza, era radicato.
“Qui era tutto buio” dice affacciandosi dalla finestra al primo piano la signora Cacciatore, fra i primi abitanti di Villa Seta. Quella finestra inquadrava il pino di Pirandello, portato via da una tromba d’aria nel ’97 e distante cinque minuti a piedi dal centro commerciale, dove già nei primi anni ’70 si sarebbero accese le insegne dei negozi.
Malgrado le difficoltà, legate soprattutto alla carenza del trasporto pubblico, allo spaesamento iniziale, la nuova Villa Seta si era ritrovata proprio negli spazi del centro commerciale. Negozi, uffici Comunali, il bar dei ragazzi (e delle ragazze) e quello degli uomini, la biblioteca aperta e frequentata dai ragazzini, la farmacia, il negozio di abbigliamento, i vigili urbani. Iniziative di volontariato, Totò Tornabene, la sezione del PCI. Addirittura qualche proiezione di film organizzata da Lillo Miccichè e altri miltanti di Lotta Continua.
“Villa Seta era allora un’ oasi di pace” dice Nicola Calaciura, tra i primi ad aprirvi un locale, un bar.
L’articolazione degli spazi favoriva la socialità. La qualità del progetto urbanistico, segnalata da Abbate, permetteva agli abitanti di Rabato e Santa Croce di riadattare al nuovo contesto le forme dello scambio, della comunicazione, della vita associativa praticata in centro storico, con le sue distanze fra le generazioni e fra i sessi, i suoi codici – una certa idea del ‘rispetto’ o il ‘maschilismo’ ad esempio, di cui parla Vanessa nel video, ribadito dai genitori negli anni in cui il femminismo trasformava il costume nazionale. Si preparava anche a Villa Seta un cambio generazionale nel segno della nuova cultura media, televisiva, su cui si formavano i figli.
E proprio allora, fra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 quei negozi hanno cominciato a chiudere, a trasferirsi. Come la tromba d’aria sul pino, una mano invisibile è passata su quei luoghi della vita sociale e il centro di Villa Seta è rimasto vuoto, deserto, in disuso. Oggi, in alcuni angoli, sembra di muoversi in un posto dove da poco si è abbattuta, appunto, una tromba d’aria, o combattuta una guerra civile. Come certe zone della parte turca di Mostar dopo i bombardamenti, proprio in quegli anni.
Perché sia avvenuto questo esodo, in una specie di mimetismo da fuga, e il successivo abbandono, come se un interdetto avesse poi sigillato quei luoghi, non è chiaro. Le risposte che si ascoltano sono tante. La crisi edilizia. Le rapine. La mancata manutenzione da parte del Comune dei locali. La paura. Il ricambio generazionale. Gli spari.
“Si sparava” dice Nicola nel video.
Ognuno dice la sua, forse c’è un po’ di verità in ogni spiegazione e altre verità che non vengono spiegate.
Più facile dovrebbe essere sapere a che punto è il piano di recupero del centro commerciale, cosa prevede, se è vero, come dicono, che vi sono i fondi stanziati, quando cominceranno i lavori.
Qualcuno sostiene che la nuova Amministrazione convocherà un’assemblea pubblica per spiegare tutto, consultare gli abitanti, raccoglierne i pareri. Naturalmente prevalgono gli scettici. Il Comune qui ha pure il nome sospetto: il cosiddetto “bene comune” viene percepito infatti come un ossimoro, un accostamento di contrari.
Cos’è oggi il bene comune a Villa Seta? Cos’era il bene comune a Rabato e a Santa Croce?
Qualche giovane ricercatore prima o poi cercherà una risposta, magari partendo dalla Rabato descritta da Settimio Biondi, da quel tipo di comunità, eccentrica e fortemente integrata, ricostruendo e spiegando la storia di una disgregazione. Nel video che segue i ricordi e le riflessioni di due abitanti.