di Tano Siracusa

Lima, foto di Tano Siracusa

Un amico che ha letto il mio pezzo su Iquitos ne ha lamentato la laconicità. Avrebbe voluto ad esempio che sul linciaggio a cui faccio riferimento avessi raccontato di più.  Mi sembrava di averlo già fatto,  e infatti ho ritrovato nella stessa memoria esterna  delle foto peruviane questa nota. Non ricordo più se pubblicata su qualche testata on line o sul mio vecchio sito.

Eccola.

“Fra queste fotografie scattate  nell’estate del 2006 in Perù  (e  le molte altre di quel prolisso   reportage)  ne manca una. Un’assenza, quell’unico scatto mancato,  che mi pare   abbia compromesso l’intero  lavoro;  che non aveva peraltro un tema preciso, ma l’ambizione di registrare tutto quello che, sorprendendomi,  indicava  ‘differenze’, coaguli di senso, spunti di informazione. La fotografia che non ho scattato è quella di un linciaggio.  

Un uomo insanguinato, seminudo, che procede  verso il suo Calvario, lo zocalo di Tarapoto.  Dietro di lui un fiume di taxi a tre ruote, che impedisce alla polizia di raggiungere il disgraziato e metterlo in salvo.  Poi ho saputo che quell’uomo aveva tentato di rubare un computer.

E’ in situazioni come questa che lo scatto fotografico  dichiara la sua intrinseca violenza. Quell’uomo, che forse uccideranno, che sa che potrebbe essere ucciso, totalmente in balia di una violenza che lo sovrasta e lo schiaccia, può  essere  inquadrato e fissato dal clic fotografico.  Il suo terrore  può diventare un’immagine, la sua umiliazione estrema venire consegnata ad un’oltraggiosa permanenza: in balia di altri sguardi, della compassione, dell’orrore, dello scherno degli altri.

Non me la sono sentita di fare quello scatto, e credo di avere sbagliato.  In Perù c’era questa barbarie dei linciaggi. La polizia lasciava fare, le autorità e i giornali prendevano atto, anche quelli che pensavano politicamente corretto non condannavano in modo forte ed esplicito.  La giustizia-fai-da-te  riscuoteva un diffuso consenso, ma era solo  la manifestazione più clamorosa di un  clima generale di violenza e di insicurezza, che si avvitava  in circuiti paranoici dove la mimesi della paura si autoalimentava.

 A Miraflores  i ceti borghesi trasformavano i loro condomini in piccoli bunker, con tanto di filo spinato sopra i muri di cinta e guardie private, mentre l’esercito minaccioso dei poveri era acquartierato nelle vaste e buie periferie della metropoli.

I linciaggi erano dentro questa guerra  sociale non dichiarata, cieca, violenta, senza regole, che spostava continuamente il confine sociale e che spesso si finiva per combattere fra poveri, perché c’è sempre chi è più povero o più violento.

Quella foto che non ho scattato avrebbe descritto meglio di qualunque altra foto e di qualunque  testo scritto quel clima, la  violenza e la paranoia della violenza che ho percepito durante quel viaggio.  

Forse bisognerebbe  non dimenticare mai che la rappresentazione della realtà, in un mondo che è ormai soprattutto rappresentazione,  è, a volte, la premessa, una premessa,  di un suo possibile cambiamento.  Che il doppio iconografico è una delle condizioni per far sparire l’originale. E’ stato così per i manicomi, è così per i regimi dittatoriali e durante le guerre, nei lager, nelle prigioni, dove la gente muore di fame di sete, dove la gente muore cercando di scappare, nel deserto, nel mare. E’ sempre così  quando ciò che si mostra  non viene fatto vedere, si tende a nasconderlo, a sottrarlo al raddoppiamento iconografico. Quando la vergogna, il calcolo, la prudenza  del potere ne inibiscono la rappresentazione.

Un fotografo non dovrebbe mai dimenticare questa  potenza dei doppi.” 

Di Bac Bac