di Nuccio Dispenza
E’ vero, Mimmo Galletto è resistenza, tutto in questo documentario, in questo documento di Tano Siracusa appare resistenza: le parole antiche, il senso della poesia, i gesti, le espressioni del viso, i sentimenti di Mimmo, come anche i luoghi. Una campagna con uomini che resistono, come gli animali, le capre giungintane, le greggi al pascolo coi cani che sgravano all’uomo un pò di fatica, la mula, gli stormi che scrivono spartiti in cielo, mentre l’aratro rianima la terra come se il mondo nel frattempo, anche qui, non fosse stato stravolto da una corsa alla “modernità in caricatura”. Una bellezza che sorprende e toglie il fiato, che commuove per la sua capacità di resistere, appunto. Proposto in quattro parti, la speranza adesso è che, una volta usciti da quest’altra impensabile emergenza, BAC BAC possa trovare l’occasione per riportare il documentario ad unità e presentarlo in uno spazio condiviso fisicamente, per una condivisa emozione ma anche per una riflessione comune.
Giandomenico Vivacqua, intervistato in quest’ultima parte, con una premonizione da brivido, a suo tempo parlava di “resistenza umana”. E immaginando, e temendo, un declino di questo nostro impero caricaturale indicava la ricostruzione del nostro vivere nella capacità che sapremo esprimere ripristinando quel che abbiamo smarrito o soffocato. Il lavoro e l’impegno di Mimmo Galletto, dunque, come resistenza. Ed è curioso che questo lavoro si sia aperto con un racconto di Mimmo del tempo della Resistenza, col papà salvato dalla caccia dei nazifascisti da un giovane, dalla promessa del padre a quel giovane: “Darò il tuo nome, Alvise, al mio primo figlio facendolo scrivere accanto al nome di mio padre”. Il racconto di Mimmo parte da Sgaranu, il suo quartiere, a Raffadali. La casa “vascia” dove fu facile raccogliere tutto quel che si muoveva e si sentiva in strada. I contadini che cantavano, muovendosi verso i campi. Che cantavano perché sentivano di dover comunicare qualcosa, tanto per il giovane Mimmo. Le strane acconciature fonetiche di quei canti, spontanee creazioni poetiche ma di raffinata costruzione: loro non sapevano, ma sentivano di dover raccontare. E Mimmo raccoglieva a piene mani.
“Cuntenta ti vidia ‘na vota l’annu, di stu burduni ‘na vota lu jornu”, “Una rosa spampinata pì masciddra”. L’amore, poi la povertà dei tempi: “Una punci di centu cantari”. L’amore conteso e la struttura poetica data anche all’insulto più violento, quasi coltello che non fa sanguinare, probabilmente unica arma di chi era in difficoltà, giù nella scala sociale spietata di un tempo.
Il mio teatro? Storia successa, che succede, che può succedere, dice Mimmo Galletto. La poesia? Poesia per comunicare, poesia del riscatto, della redenzione. E continua, parlando di Lorca, della musicalità del flamenco, di radici comuni, culturali ma anche politiche. Ignazio Buttitta e la sua straordinaria “canzone per Turi Carnevale”. Mimmo è davvero una trincea musicale a difesa di un patrimonio prezioso, anche di valori; patrimonio dal quale dovremo ricominciare. E c’è anche l’amicizia, quella che va espressa con un bacio quando accogli un amico. Come fa Mimmo ad inizio di questo viaggio.