di Mimmo Bruno
Come è possibile che un feudo di 340 ettari di terreno fertile, con annessi decine di immobili, dopo 30 anni dalla confisca venga lasciato nelle mani di chi lo occupa abusivamente, senza averne titolo? Perché la politica non ha visto e fermato questo scandalo? A firmare la confisca di quei beni fu il giudice Rosario Livatino, e quel che accade non è certamente il modo migliore per onorarne la memoria. Quello dei beni confiscati e non assegnati nell’Agrigentino è davvero uno scandalo. Eppure quel progetto di civiltà fu sottoscritto da oltre un milione di italiani. La storia ci riconduce a Canicattì, tutto accade col meccanismo ben oleato della mafia: costretta ad uscire dalla porta, facilmente rientra dalla finestra. Qualcosa si muove. Recentemente, il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra ha dichiarato che il nostro Recovery Fund è l’immenso patrimonio dei beni confiscati alle mafie. Da parte sua, il presidente della Commissione Antimafia regionale, Claudio Fava in una recente relazione denuncia ha sottolineato che i beni confiscati alla mafia, non assegnati e mal gestiti rappresentano uno scandalo, specie le medie e grande aziende che falliscono nelle mani di amministratori. Poco si è fatto, malgrado le inchieste e i processi legati al giudice Silvana Saguto e all’esponente di Confindustria, Montante. Vicende che hanno svelato e confermato aspetti scandalosi nella gestione dei beni confiscati. Problema non è più rinviabile, ritenuto che a tutti i livelli la politica nazionale, regionale e agrigentina si dimostra sostanzialmente assente.
A chi giova? Tutto ciò rischia di dare credito alla mafia e ai suoi fiancheggiatori quando affermano che “la mafia dava lavoro e benessere , invece lo Stato porta alla miseria” .
Andiamo alla vicenda del feudo di Canicattì. La storia risale al tempo dell’inizio della mia collaborazione con Libera. Ero appena andato in pensione, era l’inizio del 2004.
Saputa dell’operazione “Alta mafia”, con l’arresto di un deputato ed ex assessore regionale soprannominato “Mangialasagne”, di un sindaco e diversi capi mafia e loro fiancheggiatori di Canicattì e paesi limitrofi , ad Agrigento alcuni consiglieri comunali di minoranza, tra cui i battaglieri Lillo Miccichè e Peppe Arnone, avevano invitato don Luigi Ciotti. Era stato lui, nel 1996, a fare approvare dal parlamento (dopo la raccolta di un milione di firme) la famosa legge 109/96 sul riutilizzo dei beni sottratti alla mafia. Un passo che aveva alle spalle la legge fortemente voluta da Pio La Torre. L’obiettivo era quello di destinarli a fini sociali. A beneficiarne avrebbe dovuto essere il territorio dove quei possedimenti e quei beni erano stati con fatica sottratti alla mafia.
Ad Agrigento, don Ciotti venne ricevuto dal prefetto Fulvio Sodano. Arrivava da Trapani, dove non aveva guardato in faccia anche a potenti locali quando si intestò una lotta decisa a chi gestiva il ricco ciclo del cemento e del movimento terra. Tra i nomi di quella indagine, quello di un potente sottosegretario del governo Berlusconi, finito sotto processo per concorso esterno all’associazione mafiosa. Nel corso di quell’incontro fu proposto il mio nome per la collaborare con l’ufficio Nnazionale di Libera impegnato sui beni confiscati alla mafia. Fu Luigi Ciotti a convincermi ad accettare.
Dopo numerosi incontri in Prefettura, tra i responsabili nazionali e regionali di Libera, i sindaci e i funzionari comunali che avevano in carica quelle centinaia di beni confiscati, si diede vita a “Libera Terra”, un consorzio agrigentino per la legalità e lo sviluppo. Dapprima formato da sei comuni, Agrigento, Favara, Licata, Naro, Siculiana e Canicattì. Poi si aggiunse il Comune di Palma di Montechiaro allora guidato dal coraggioso Rosario Gallo. Dopo la ratifica dei rispettivi consigli comunali, si passò alla fase operativa e dei progetti da presentare al ministero dell’Interno per ottenere i fondi e recuperare e ristrutturare quei beni abbandonati.
Da quei progetti del PON Sicurezza si erano ottenuti oltre 4 milioni di euro destinati ai Comuni di Siculiana, Naro e Favara per la realizzazione di impianti sportivi, centri di comunità a Favara, un centro di accoglienza per scout e studenti nelle vicinanza del lago San Giovanni di Naro e un centro di aggregazione ambientale e culturale a Siculiana Marina, quest’ultimo con un bene confiscato al boss siculianese Caruana.
Scorrendo quella lista di beni, mi accorsi di quei 340 ettari, un vero e proprio feudo confiscato dal Giudice Rosario Livatino da oltre 26 anni e ancora non assegnato.
Predisposti dal prefetto i dovuti sopralluoghi, ci siamo accorti che tutto il feudo, compresi numerosi immobili, erano ipotecati da due banche, il Banco di Sicilia e la Banca San Francesco di Canicattì. Terreni e case occupati da pastori con centinaia di capi di bestiame e da alcuni agricoltori di Canicattì, con la “benedizione” delle due banche .
Banche che, a quasi trent’anni dalla confisca operata dal Giudice Livatino, pretendevano dal Comune di Naro ben 5 milioni di euro, a fronte di un miliardo di lire che le stesse banche avevano prestato a quei personaggi. Vicenda che aveva sostanzialmente vanificato l’impegno dello Stato, il difficile lavoro di Livatino.
Accertato questo scandaloso episodio, con il sindaco e l’assessore al Patrimonio del tempo, si decise di svincolare quel bene presso intervenendo sul Demanio di Palermo, dove fummo fortunati ad incrociare un bravo dirigente, molto attento. Nel giro di qualche mese si riuscì a svincolare 100 ettari di terreno sui 340 ettari. Si decise di affidarli a Libera. Successivamente, mediante bando pubblico, passò ad una cooperativa di sei soci fondatori che portava il nome del giudice Rosario Livatino.
Dopo le mie denunce all’operato di quelle banche, don Luigi Ciotti ottenne lo svincolo gratuito dell’intero feudo, 340 ettari , tutti affidati alla Cooperativa Rosario Livatino.
Non fu vita facile per la cooperativa. Sin dal primo momento e alla prima semina ha subito non pochi vili attentati: incendi dolosi, pascoli abusivi con danneggiamenti per decine e decine di ettari di seminativo. Malgrado le denunce del presidente della Cooperativa, i colpevoli non sono mai stati individuati. Fu utile un’inchiesta giornalistica, fatta da Avvenire, firmata da Toni Mira: chi occupava abusivamente ettari di terreni e un fabbricato con annessa stalla e mandria fu denunciato all’autorità giudiziaria. Ciononostante, ancora oggi c’è chi occupa una decina di ettari coltivati a frutteto, terreni irrigati dalle acque di un laghetto artificiale, anche questo confiscato.