di Vito Bianco
Mancavano dodici giorni alla fine del mese di giugno. Il corso che tenevo era finito; restava la cena con gli allievi, i brindisi e i saluti, il racconto davanti alle portate dei migliori aneddoti di quei tre mesi durante i quali forse non avevano imparato molto, ma dai quali di certo avevano ricavato piacevoli ricordi per il futuro, spunti per le chiacchiere serali accanto al camino, d’inverno, o sotto l’ombrellone del bar, d’estate.
Ero arrivato all’Istituto con un’ora d’anticipo. Avevo voluto provare il brivido della velocità, rinunciando per una volta alla lentezza musicale degli ottanta chilometri orari, che rilassava me e stupiva, quando non irritava, i rapidi guidatori che inciampavano nell’automobilista lumaca che sembrava non avere nessuna fretta. Quell’ultima volta decisi di fare uno strappo alla regola e di filare come filavano tutti quelli che facevano la mia stessa strada, vergognandomi un po’ per quella che a me pareva una corsa folle ed era invece la normale velocità autostradale.
Non c’era ancora nessuno, a parte il bidello che se ne stava immobile nella sua stanzetta ingombra di stracci, scope e secchi, intento a riempire le caselle di un cruciverba che, a giudicare dalla laconicità della risposta al mio saluto, stava mettendo seriamente alla prova le sue capacità di giocatore. Non sapevo che fare. Diedi una scorsa alle pagine di un quotidiano locale che trovai sul tavolo della sala dei professori e poi uscii in cortile a fumarmi una sigaretta. Proprio alla fine della fumata arrivò Michele, il capo della segreteria, e Rosalba, una delle mie allieve, corpulenta ed energica, sempre pronta a saltar su quando era il momento delle domande e delle richieste di approfondimento.
Michele riportò le mani all’altezza delle tempie e, dopo aver dato uno sguardo al cielo scuro di nubi, disse: A piedi non si può fare la salita fino al santuario, ma se per te va bene lo stesso, la faremo col fuoristrada. Mentre rispondevo che per me andava bene se lui pensava che si poteva fare, che non c’era pericolo, cominciò a cadere la pioggia. Entrammo nella jeep di Michele, allacciammo le cinture e dopo pochi minuti eravamo ai piedi della mulattiera che saliva lungo un fianco della montagna per quattro chilometri e finiva sulla spianata del santuario consacrato al Salvatore, al Cristo fattosi uomo per liberare gli uomini dal peccato originale. Michele ingranò la prima ridotta e iniziammo l’ascesa.
Il ritmo della pioggia era aumentato. Il tergicristalli al massimo della frequenza faceva fatica a sbarazzarsi della cortina d’acqua, e io, seduto accanto al guidatore mi chiedevo come facesse a vedere la strada, difficile da percorrere anche in condizioni meteorologiche perfette, figurarsi con quella pioggia e la nebbia che salendo avevamo trovato, e che si infittiva man mano che salivamo di quota.
Riesci a vedere?, chiesi a Michele. Lui mi rispose allegro che non c’era nessun problema, che già altre volte gli era capitato di guidare per quella strada anche con un tempo peggiore di quello. Ovviamente stai scherzando?, dissi io. No. Dico sul serio, replicò lui, prima di liberare una risata che non trovai del tutto fuori luogo. Sorrisi per non fargli un torto e per non innervosirlo; in fondo c’era lui al volante, eravamo nelle sue mani. E come se mi avesse letto nel pensiero, Rosalba, da un angolo del sedile posteriore dove si era rifugiata, disse: Michele, siamo nelle tue mani, facci vedere che sei un pilota d’alta montagna. Con me sei al sicuro, disse lui, e cominciò a raccontare di una zia settantenne che una mattina aveva piantato il marito e se ne era andata a vivere da sola in campagna, e degli anni della falegnameria, una passione che non aveva mai smesso di coltivare nel tempo libero dal lavoro all’Istituto: tagliare, piallare e incastrare i legni per farne sedie e tavoli e armadi e porte era per lui il vero lavoro, quello che si fa con le mani e che produce cose concrete e utili.
Il vento era girato e ora la pioggia colpiva la fiancata di sinistra.
Procedevamo a passo d’uomo, attenti a non finire dentro una buca troppo profonda o contro un masso o il ramo di un faggio caduto sul sentiero. Se guardavo di lato vedevo il vuoto del precipizio bordato di verde denso e liquido; più lontano il velo fitto della nebbia nascondeva la vegetazione sotto cui si intuivano i pezzi di roccia della montagna che faceva un arco, come se si girasse intorno per abbracciarsi.
Forse è meglio se torniamo indietro. Lo disse Rosalba, che aveva messo la testa nello spazio tra me e Michele, perché noi potessimo udirla. Michele face finta di non averla sentita e continuò a guidare concentrato come un timoniere nella tempesta. Non aver paura, dissi, toccandole la mano che aveva abbandonato sulla mia spalla. Arriveremo sani e salvi. Michele è un asso del volante; vero, Michele? Proprio così, mi rispose, e attaccò a fischiare l’inno dei bersaglieri, il corpo del suo servizio militare.
Dopo l’ennesima curva a gomito scendemmo per un avvallamento che l’acqua piovana aveva trasformato in un piccolo lago. La jeep si spense e Michele, senza scomporsi, aprì l’aria e diede gas con studiata gradualità, finché il motore ripartì e io tirai un sospiro di sollievo. Guardai dietro e vidi Rosalba con le mani strette sotto le ascelle e la testa china sul petto. Non voleva guardare; era nervosa e di sicuro si pentiva di essere salita in quella macchina. Ma capiva, come lo capivo io, che la cosa migliore era incrociare le dita e sperare che il guidatore sapesse davvero il fatto suo, che la sua sicurezza apparente non nascondesse i germi di un potenziale panico.
Ad un’erta fangosa Michele si fermò per poter ripartire con maggiore cautela, sfruttando tutta la forza breve della marcia ridottissima. Ma quando lasciò andare la frizione pigiando nello stesso tempo l’acceleratore, le ruote girarono a vuoto e al jeep restò sul posto. Il nostro autista provò e riprovò, ma non ci fu niente da fare: il motore gridava e le ruote sgommavano sulla pista di fango che per noi era di ghiaccio. Nessuno parlava; si sentiva la pioggia battere sulla lamiera del tetto. Si sentiva il respiro di Michele, e io sentivo anche i mormorii di Rosalba che senza volerlo me li sussurrava all’orecchio sinistro.
Quando capì che non c’era verso di schiodare da quel fango scivoloso, Michele ci disse di scendere e spingere. Scendemmo e in pochi minuti eravamo zuppi d’acqua. Puntammo piedi e spingemmo. Io imprecavo per farmi forza; Rosalba stringeva i denti e non diceva niente. Michele aprì il finestrino e gridò forte i Via! e gli Ora! per scandire l’unisono dei nostri sforzi. Per almeno venti minuti provammo e riprovammo, ma la macchina non si mosse di un passo. Michele scese dalla macchina e venne a dirci di tornare dentro, che era inutile.
Fu in quel momento che Rosalba diede un calcio alla jeep e si mise a urlare che lei lo sapeva che era da imbecilli mettersi a fare l’arrampicata con quel tempo, che l’aveva detto che era meglio tornare indietro. Si avvicinò a Michele e con la bocca a un millimetro dal mento gli urlò che era un pallone gonfiato e che avrebbe dovuto riportarci indietro immediatamente. Lui indietreggiò di un passo e disse solo: Va bene, passandosi una mano sul viso bagnato. Andiamo dentro, dissi. Lei ribattè che da lì non si sarebbe mossa, che aspettava di vedere come se la sarebbe cavata l’asso del fuoristrada.
Non aveva neanche finito di dirlo che si sentì lo sbattere di una portiera e Michele saltare giù dall’abitacolo. Con due passi la raggiunse, la prese per un braccio e la trascinò alla macchina, scaraventandola sul sedile posteriore. Rientrai anch’io e restammo silenziosi a guardare la pioggia che continuava a cadere incessante.
In macchina passarono dieci minuti di silenzio assoluto. Forse tutti e tre stavamo trattenendo il fiato, in ascolto dei suoni prodotti dalla pioggia e dal vento. Io pensavo: tre fessi bloccati in una jeep giapponese. Che non parlano. Che cominciano ad aver paura. Rosalba si era sdraiata sul sedile a pancia sotto e cercava di non farci sentire il pianto che non riusciva più a trattenere. Volevo dire qualcosa ma ci rinunciai; tanto non sarebbe servito a niente. Piangere le avrebbe fatto bene; lo dicono anche i medici che il pianto ci libera dalle tossine emotive.
Per non pensare, per non farmi prendere dallo sconforto provai a ricordare i versi di un sonetto di Shakespeare, quello che comincia Quando quaranta inverni solcheranno la tua fronte , e profonde rughe assedieranno il campo della tua bellezza … Dai bella, non piangere, siamo tutti nervosi… Dai, Rosalba, disse Michele che si era girato per consolarla e scusarsi. Lei continuò a singhiozzare fino a quando ebbe esaurito le lacrime. Quando smise aveva gli occhi rossi ma sembrava tranquilla, come se fosse reduce da una seduta di massaggi.
Michele, nel folto della nebbia, raccolse due grosse pietre e la piazzò sotto le ruote posteriori. Io e Rosalba scendemmo dalla macchina e ricominciammo a spingere al segnale di Michele, che intanto dava gas al motore. Al terzo tentativo la jeep si mosse, guadagnando lo slargo poco distante.
Riprendemmo la lenta marcia facendoci largo tra i lenzuoli di nebbia e le verticali di pioggia mista a grandine, più volte lambendo l’orlo di un dirupo che dalla macchina sembrava non avere mai fine, finendo e non finendo al fondo di una verdezza attirante e minacciosa. Anche i faggi crescevano di numero, formando piccoli boschi autonomi: si piegavano all’indietro e ritornavano come balestre che lanciassero sassi contro i bastioni di un castello che non vedevamo.
All’uscita da un tornante avvistammo il santuario. Era un edificio basso e quadrato, con un porticato di medie dimensioni che faceva pensare agli ingressi delle chiese romaniche. Quella sobrietà a mille e duecento metri sul livello del mare aveva una strana solennità, che intimidiva e consigliava il silenzio.
L’edificio era chiuso, tranne una stanza sul retro, bassa e fredda, forse il luogo della penitenza e della meditazione. Le pareti umide, la polvere sedimentata dalla solitudine, una immacolata tranquillità ti convincevano dell’esistenza di una verità fuori dal mondo.
Ritornammo all’aperto. La pioggia era cessata e la nebbia si era ritirata nelle forre e nel sottobosco. La vista era magnifica. In lontananza si poteva vedere la cima imbiancata dell’Etna ma l’impressione era di dominare una vasta area dell’isola. L’aria era sottile e rarefatta.
Quando, circa un’ora dopo arrivammo al ristorante per la cena con i partecipanti al corso, avevamo dimenticato tutto: l’incidente, la paura, il pianto di Rosalba, lo scatto di Michele. Tutto, tranne la polvere del santuario e l’altezza del silenzio. Un messaggio