L’onda liberista degli anni ’90, che ha portato alla liberalizzazione anche dei servizi pubblici essenziali, si concretizza nel settore idrico siciliano con la nascita nel luglio del 2004 della società mista pubblico-privato Siciliacque (75% di proprietà della multinazionale francese Veolià e 25 della regione Sicilia), a cui vengono cedute fino al 2044 le concessioni fino ad allora gestite dall’ente pubblico EAS (Ente Acquedotti Siciliani), un carrozzone pubblico clientelare ed inefficiente. Obiettivo dichiarato era di industrializzare i processi di captazione, potabilizzazione e distribuzione dell’acqua, per recuperare efficienza ed economicità della gestione. Condizione necessaria, quest’ultima, per poter utilizzare i fondi messi a disposizione dall’Unione Europea per rinnovare, manutenere ed estendere le reti idriche, al fine di recuperare il gap infrastrutturale con le regioni europee più avanzate.
Il compito di Siciliacque è di gestire il cosiddetto “sovrambito” (le dighe, gli invasi, le sorgenti, le grandi condotte, i dissalatori, i potabilizzatori): in pratica, attraverso la rete di adduzione, fa confluire l’acqua captata e potabilizzata in grandi serbatoi, per poi avviarla nei serbatoi più piccoli dei singoli comuni; ad occuparsi della gestione della distribuzione all’interno dell’Ambito Territoriale Ottimale (ATO), ovvero del singolo comune, è invece una società preposta a ciascun ambito. In Sicilia gli ambiti sono 9, uno per ogni provincia. Siciliacque si aggiudica la concessione regionale con un piano di investimenti articolato nell’arco dei 40 anni di concessione, per un ammontare complessivo di 580 milioni di euro. Siciliacque, però, non si ripropone di realizzare le opere del piano d’investimento con capitali propri, ma ricorrendo al project financing, con i fondi anticipati da una cordata di banche italiane. Naturalmente, essendo la “finanza di progetto” un’operazione di finanziamento a lungo termine di un’opera in cui il rimborso è garantito dagli incassi previsti dalla attività di gestione dell’opera stessa, era facile prevedere, già allora, che le tariffe degli utenti finali sarebbero aumentate di parecchio. Infatti, il costo industriale dell’acqua ceduta da Siciliacque ai singoli ambiti provinciali è tra i più cari d’Italia, ed è all’origine del caro bolletta e dei dissesti finanziari delle società siciliane di gestione dei servizi idrici.
Girgenti Acque viene costituta agli inizi del 2007 per la distribuzione dell’acqua, la manutenzione della rete idrica, nonché la raccolta e depurazione dei reflui per i comuni dell’ATO agrigentino. L’assegnazione della concessione avviene in fretta per non perdere, così si disse, un finanziamento di 30 milioni di euro per il rifacimento della rete idrica di Agrigento. Per la verità, la concessione di questo finanziamento è stata presentata in pompa magna da ministri e ben quattro presidenti di regione (Cuffaro, Lombardo, Crocetta, Musumeci), ma a distanza di 15 anni lavori non se ne sono visti, la rete idrica della città è sempre quella del secolo scorso e oltre il 50% dell’acqua continua a perdersi attraverso le tubature sempre più vetuste.
All’azionariato di Girgenti Acque partecipa anche la famiglia Campione, inizialmente con una quota minoritaria. Ben presto, però, Marco Campione diventa il deus ex machina dell’azienda e il Gruppo Campione acquisisce la maggioranza assoluta del pacchetto azionario. I Campione come imprenditori non hanno una tradizione industriale: sostanzialmente la loro attività imprenditoriale si limita alla gestione di un rifornimento di carburante e di alcuni negozi specializzati in forniture per l’edilizia. L’unica attività industriale di rilievo è stata l’acquisizione della Impresem (colosso delle costruzioni coinvolta negli anni ‘90 insieme ai suoi proprietari, gli imprenditori Filippo Salamone e Giovanni Miccichè, nell’indagine sul cosiddetto tavolino: sistema di spartizione mafiosa degli appalti svelato dal pentito Angelo Siino) negli ultimi anni della sua travagliata attività, quando oramai era solo l’ombra della grande impresa che era stata. La concessione trentennale per la gestione del servizio idrico degli oltre 400.000 abitanti della provincia di Agrigento viene affidata il 27 novembre 2007, tramite una gara a cui partecipa solo Girgenti Acque (in Sicilia accade spesso che appalti o concessioni pubbliche per centinaia di milioni di euro vedano in corsa un solo partecipante: per restare in ambito agrigentino, basti pensare all’appalto per la raccolta dei rifiuti e lo spazzamento della città). Dunque, viene aggiudicata la concessione di un servizio fondamentale per la comunità, per un volume di affari di circa 50 milioni di euro l’anno per la durata di 30 anni, ad una società costituita da pochi mesi (precisamente il 14 marzo 2007), con una base patrimoniale limitata (che verrà azzerata in pochi anni di attività), che non si è mai occupata del settore, non ha alcuna esperienza nel campo dei servizi pubblici, non ha competenze nella gestione di servizi di rete e non possiede un know-how industriale specifico (gestire un acquedotto, un impianto di potabilizzazione o di depurazione comporta conoscenze scientifiche, tecniche e gestionali elevate). Per di più, si tratta di un’azienda che ha operato per circa un decennio priva delle necessarie certificazioni antimafia: come questo sia potuto accadere, nonostante le inchieste in corso in più procure per infiltrazioni mafiose nell’azienda, non può che destare stupore (senza il certificato antimafia non è possibile avviare neanche un’impresa di pulizie domestiche, altro che gestire la prima azienda della provincia per fatturato). In compenso, però, Girgenti Acque e i Campione sono ricchi di amicizie e di padrini politici presenti in quasi tutti i partiti e a tutti i livelli.
La profittabilità di Girgenti Acque è un miraggio, visti i vizi di origine: in primis l’acquisto della materia prima da Siciliacque ad un prezzo esoso; e poi, i pegni da pagare ai politici amici, con la crescita a dismisura degli organici (i magistrati parlano di “assumificio”) e le richieste di contributi elettorali in denaro e in natura (biglietti aerei, vacanze, soggiorni di vario tipo ed altre regalie). Ma, evidentemente, lo scopo del Gruppo Campione non è quello di rendere l’azienda efficiente e redditizia, quanto quello di spolparla, scaricando su di essa costi di altre società del gruppo e utilizzando le imprese di famiglia per fornire a Girgenti Acque beni e servizi ad un costo maggiorato, in spregio al conflitto di interessi, alla legge e alla decenza. Inoltre, possedere la prima azienda privata della provincia per dipendenti e fatturato, conferisce sicuramente un grande potere politico, che si può facilmente tradurre in una efficace protezione per gli affari del gruppo, soprattutto se si ha qualche scheletro da occultare (i Campione ne hanno parecchi).
I meccanismi della “gestione impropria” di Girgenti Acque sono chiaramente spiegati dall’ex amministratore delegato Carmelo Salamone (socio di minoranza con il 4% del capitale della società) che, nel rassegnare le dimissioni dall’incarico nel luglio del 2013, evidenzia fatti gravissimi: l’atteggiamento padronale del presidente del consiglio di amministrazione Marco Campione; le assunzioni fatte direttamente da Marco Campione all’insaputa dell’amministratore delegato, competente per statuto (dal 2011 al 2015 il costo del personale passa da 5,3 milioni di euro a 7,7 milioni); la retribuzione a carico di Girgenti Acque di personale che svolgeva la propria attività nelle imprese del Gruppo Campione; i beni e servizi acquistati a costi superiori dalle società del Gruppo Campione; i verbali del consiglio di amministrazione non veritieri; i bilanci fatti quadrare con dati inesatti.
Quindi, aldilà del ricco campionario di piccole e grandi nefandezze portato alla luce dai magistrati con l’inchiesta in corso – la più grave mi sembra in assoluto quella di aver installato contatori di provenienza cinese che rilasciano sostanze tossiche: un vero attentato alla salute degli agrigentini a cui bisognerebbe rimediare immediatamente -, tutte le caratteristiche della mala gestio erano state denunciate pubblicamente e dal pulpito più autorevole ed informato, quello appunto dell’amministratore delegato della società, già otto anni fa.
Quello evidenziato dai magistrati, però, non è solo uno spaccato del funzionamento di Girgenti Acque, degli affari che vi giravano attorno, dell’associazione a delinquere che la gestiva, delle coperture politiche (senza distinzioni tra destra e sinistra) e della compiacenza degli enti di controllo, a loro volta controllati dalla politica. L’inchiesta coinvolge presidenti di regione, deputati, sindaci, consiglieri comunali, un presidente della provincia, funzionari pubblici, addetti alla vigilanza del mercato e al controllo dell’ambiente, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine, per quasi un centinaio di persone indagate per associazione a delinquere finalizzata alla: corruzione, truffa, ricettazione, inquinamento ambientale, voto di scambio, false comunicazioni in ambito societario, danneggiamento, inadempimento nei contratti, frode nelle pubbliche forniture. Purtroppo, l’inchiesta giudiziaria è anche, ma forse soprattutto, una foto di gruppo di una comunità i cui tratti salienti sembrano essere eterni, immutabili: scarso senso dello stato, disprezzo per la cosa pubblica, tendenza ad arricchirsi illegalmente, servilismo, continuo scambio di favori con il potente di turno, carrierismo e trasformismo in politica. Insomma, una comunità che nel suo complesso non esprime una grande cifra morale e che si rispecchia pienamente nella sua classe dirigente.
Comunque, aldilà delle vicende giudiziarie, di sicuro è finita l’era della gestione privata dell’acqua. Già nel 2018 Girgenti Acque era stata commissariata a causa di una interdittiva antimafia, mentre il 10 giugno scorso il tribunale di Palermo ha dichiarato il fallimento della società, mettendo una pietra tombale sulla gestione privata del Gruppo Campione.
Finita l’era dei Campione, resta ancora in alto mare la costituzione della azienda pubblica che dovrà subentrare a Girgenti Acque nella gestione del servizio idrico e di depurazione.
In seguito al referendum del 2011, che con una schiacciante maggioranza di oltre il 95% ha respinto la privatizzazione dell’acqua, la Regione Siciliana è intervenuta con la legge 19/2015 per disciplinare la gestione dei nove Ambiti Territoriali Idrici: uno per ogni provincia. Nel settembre del 2019 l’assemblea dei comuni dell’ATI di Agrigento ha deliberato la costituzione di una azienda speciale consortile per la gestione pubblica dell’acqua, approvandone lo statuto e il piano finanziario e presentando il cosiddetto piano d’ambito. La vicenda della costituzione della società consortile, non ancora conclusa, incontra però un terreno molto accidentato, in cui si scontrano sotterraneamente (ma neanche tanto) gli interessi dei vari capibastone della politica provinciale. Alla nuova società dovrebbero aderire tutti i 43 comuni dell’agrigentino, ma 8 di questi non hanno mai consegnato la reti a Girgenti Acque, gestendo in proprio la rete cittadina, e non hanno intenzione di aderire alla società consortile. L’ambito agrigentino così verrebbe ad avere nove gestioni autonome: una azienda consortile che raggrupperebbe 35 comuni cui si aggiungerebbero otto singole gestioni comunali. Ma questo sarebbe contrario alla legge regionale del 2015 che prevede una sola società di gestione per ogni ambito provinciale. Per la verità la legge prevedeva inizialmente la possibilità di gestioni sub-ambito, ma la norma, impugnata dal commissario dello Stato per la regione siciliana, è stata cassata dalla corte costituzionale. Gli otto comuni che continuano la gestione in proprio (quelli della montagna, che hanno sorgenti nel loro territorio) si appellano alla legge nazionale 152/2006 che detta le norme sulla gestione delle risorse idriche, la quale prevede la possibilità della gestione diretta rispettando alcuni requisiti (essere all’interno di un parco naturale, avere fonti pregiate, tutelare il corpo idrico) che questi comuni non sembrano avere: basti pensare che 7 di essi sono sotto procedura di infrazione per mancata depurazione delle acque reflue. D’altra parte, se era comprensibile la loro resistenza di fronte ad un gestore privato truffaldino come Girgenti Acque, non si capisce la loro opposizione ad un gestore pubblico. La questione è di fondamentale importanza, tanto che il presidente della regione ha nominato un commissario ad acta per verificare i requisiti per la gestione diretta dei comuni ribelli. Ma dal settembre 2020 ad oggi, il commissario non ha deciso un bel nulla. Siamo quindi di fronte ad una situazione paradossale: 43 comuni sono obbligati dalla legge a far parte di un solo ambito idrico, ma presentano 9 piani di gestione e di investimenti diversi: uno per la azienda consortile che comprende 35 comuni e 8 piani di singoli comuni. Il rischio evidente è la bocciatura del piano d’ambito e l’addio ai finanziamenti previsti per rinnovare la rete e gli impianti di depurazione, infrastrutture essenziali per rendere il servizio più economico ed efficiente.
Forse qualcuno vuol far fallire sul nascere la azienda consortile, per poi tirare fuori dal cilindro una società privata a capitale misto pubblico-privato: l’anticamera di una nuova privatizzazione?
Questa vicenda è un banco di prova per le forze politiche, tutte toccate dall’inchiesta, con la lodevole eccezione dei 5 Stelle. La volontà di chiudere con la malagestione e voltare pagina, aldilà dei comunicati ufficiali (per la verità scarsi. Per esempio, manca quello del sindaco di Agrigento, comune capofila dell’ATI), si vedrà concretamente dal loro comportamento sulla costituzione della azienda consortile pubblica, oltre che dalla eventuale costituzione di parte civile nel processo a Girgenti Acque. Tutti i comuni agrigentini dovrebbero farlo, per i rilevanti danni economici e morali subiti dai loro cittadini. Ad oggi, solo il sindaco di Favara ha annunciato la costituzione di parte civile del proprio comune. Vedremo quanti ne seguiranno l’esempio.
Da sottolineare, infine, la costituzione di un forum cittadino per l’acqua pubblica a cui aderiscono l’associazione Titano, la Legambiente, l’associazione Bac Bac, il circolo Belushi dell’Arci, l’associazione per il monitoraggio civico SBEM, l’associazione dei consumatori, per difendere la costituzione della azienda consortile pubblica e contrastare le tendenze alla privatizzazione: un’area di resistenza civile, di autorganizzazione sociale, che potrebbe costituire una piattaforma utile a costruire un’alternativa culturale, prima ancora che politica, per sottrarre i beni comuni al profitto privato e al malaffare.