di Giandomenico Vivacqua
Il testo che pubblichiamo non è inedito, è stato pubblicato sui social e su Suddovest. Lo pubblichiamo come si può fare con un ‘classico’, un testo che si sottrae all’usura del tempo e alla volatilità dei gusti, che fa bene anche rileggere.
È mezzogiorno. Un manipolo di risoluti, sospinti dal vino e dal suono dei tamburi, irrompe nella casa, appena fuori le mura, di un uomo di una certa età, con l’intenzione di condurlo fuori, sul pianoro, dove s’è radunata, in una torrida atmosfera che lascia presagire il peggio, una massa scomposta e vociante. Il vecchio prova a resistere, forse pronuncia alcune frasi che fanno inizialmente effetto su quegli uomini, che esitano ad uscire allo scoperto, sotto il sole pesante. Forse c’è un conflitto interno al manipolo, perché il vecchio, ghermito e scosso, per un certo tempo rimane incagliato sulla soglia della sua dimora, prima di essere definitivamente consegnato alla folla, che adesso ha raggiunto il parossismo dell’eccitazione. Le voci non articolano più parole sensate ma solo versi indistinti, il frastuono di un’orda che mareggia e sbanda in preda al furore. Il vecchio è trascinato via, travolto da un irrefrenabile sentimento collettivo di caccia e di annientamento.
I più invasati montano sulla berlina e gli sono addosso, per averne ragione a mani nude, ma ciascuno e ricacciato giù, senza riguardo, affinché di nessuno in particolare sia il merito o la colpa dell’uccisione, ma di tutti al contempo. Cosicché, mentre il corteo procede con digressioni e barcollamenti vistosi sul suo percorso, il vecchio è colpito da un grosso proietto, poi da un altro, poi da una pioggia crudele. Con serena coscienza, ogni padre di famiglia scaglia la sua pietra; le mogli, i figli lo imitano. Il vecchio è spacciato, finito.
È sera. Ebbra, soddisfatta, la folla rifluisce, lentamente la comunità ritrova se stessa, nella calma sazia e devota. Pare che il vecchio, nero di pelle, trafficasse con strane pozioni. Venuto da un paese lontano, aveva scienza di controveleno e pietosamente curava gli appestati, senza temerne il contagio. Come? Perché? La questione non è chiara, le voci corrono: curava o ad arte ungeva i cantoni delle case e dei palazzi, a spargere il morbo? Chissà. Adesso che è morto, un vento salubre dilegua ogni miasma, segno di divina benevolenza, questo è certo. Fu detto: “È meglio che una sola creatura perisca per tutto il popolo.”
Ad Agrigento, la prima e la seconda domenica di luglio si celebra la festa di San Calogero, il santo nero. È una festa controversa, tollerata dalle gerarchie cattoliche ma rivendicata e difesa dal popolo. La processione, senza scorta di chierici, mette in scena un antico sacrificio umano, con la lapidazione sublimata da un teso lancio di pani. Sovente, l’assalto al fercolo si risolve nella mutilazione del santo, un dito, una mano. L’approccio alla sua figura è devoto e carnale. Il santo è reputatissimo presso gli agrigentini, innumerevoli le sue guarigioni. Con le sue origini incerte, col suo statuto di esule o di migrante, adombra Gerlando, il divo protettore, francese di più alto lignaggio.
Onore a san Calò, santo degli ultimi, degli irregolari, del galeotto e della prostituta, della gente minuta, degli esclusi e dei perseguitati. Non importa chi fosti né da dove venisti; non importa se eri negro africano o se il legno del tuo simulacro annerì in un incendio. Ieri come oggi gli agrigentini amano in te la diversità e la marginalità, che sono i predicati assoluti dell’essere umano. In ogni tempo, in ogni luogo.