di Vito Bianco
Non sono in grado di dire con precisione quando ho pensato per la prima volta che mi sarebbe piaciuto scrivere qualcosa sui Peanuts. E ogni volta che leggo una delle migliaia di strisce partorite dalla speciale mente di Charles M. Schulz, mi ripeto che dovrei almeno tentare di dire qual è secondo me il segreto – o i segreti – di questa creazione straordinaria che ha affascinato quattro generazioni di lettori, accompagnandoli dall’infanzia alla giovinezza alla maturità senza che neppure un briciolo di quella misteriosa fascinazione andasse perduto.
Ma poi mi dico che ci sono interi scaffali di saggi e analisi sui Peanuts, anche se io ho letto anni fa soltanto due sondaggi critici: il famoso articolo di Umberto Eco nel quale il semiologo afferma provocatoriamente che Schulz è un poeta, e un molto dettagliato saggio di Giansiro Ferrata ristampato in uno dei volumetti economici di Baldini e Castoldi. E comunque, quali mai argomenti posso trovare per, non dico, risolvere il suddetto mistero, ma molto più modestamente indicare una via, suggerire un sentiero?
Il fatto è che con Linus e compagni si fa un’esperienza esaltante e frustrante insieme. Mentre leggi la vicinanza è talmente adeguata da coincidere con la “comprensione perfetta”; un attimo dopo, uscito dalle inimitabili quattro battute della sequenza disegnata, l’enigma di quella perfezione si ripresenta intatto, e a questo punto solo l’impossibile traduzione concettuale dell’incanto infantile sarebbe capace di risolverlo, quel benedetto mistero.
Mistero, enigma;due parole che riportano alla domanda che chissà quanti lettori si sono fatta: come fa? Una domanda destinata a non trovare risposta, come in altri casi analoghi in ci la precisione si sposa con la facilità, spesso frutto di assiduo esercizio. Eppure, ci diciamo, è tutto chiaro, limpido, strutturato secondo una logica ritmica che fa pensare alla… poesia.
Ma non nel senso del banale poetico a cui molti ricorrono per darsi ragione di qualcosa che li commuove ma non capiscono; bensì nel senso più ristretto ed esatto della precisione metrica che governa le scene, della cadenza studiata e inevitabile con cui si ordina una quartina in cui i versi-vignette tendono a rimare o si richiamano secondo uno schema AbbA o una sua variante, usata per movimentare e sorprendere il lettore attestato sul noto orizzonte d’attesa. Si nota subito questa scansione quadripartita? Penso di sì. E ancora: questa specie di modello metrico, ci avvicina alla comprensione, almeno parziale, del mistero? Non lo so. Non credo. Ma nemmeno tornare all’altra parola, incanto, aiuta. Che Schulz sia un incantatore è un’evidenza.
Ma cosa fa per incantare? Racconta storie. O meglio, crea situazioni; inventando un mondo coerente e potenzialmente inesauribile. Di che parlano queste storie-situazioni? Eco risponderebbe: “della condizione umana”. Giusto, anche se generico. Se invece diciamo che parlano della difficoltà di trovare un modo indolore di stare al mondo, dopo essere venuti a patti con la paura della vita, abbiamo isolato un tema e trovato un’utile chiave di lettura (provvisoria, parziale). La prima stranezza di queste storie è che sembrano avere l’ambizione di coprire ogni minuto secondo dell’esistenza è che i protagonisti sono bambini di sei anni.
Gli adulti non ci sono. E non ci sono perché i bambini sono anche adulti, pensano come degli adulti molto riflessivi e dunque vivono simultaneamente due vite, due età: l’adulta e la infantile. Sono – non tutti, ma di certo i tre personaggi principali, Charlie Brown, Lucy e Linus, per tacer del bracchetto Snoopy – nevrotici pensatori in miniatura che producono riflessioni ora serie ora ironiche su tutto ciò che da sempre concerne l’umano.
Allo stesso tempo, questa dimensione atemporale della narrazione-riflessione ha come sfondo il presente pubblico, soprattutto americano del mezzo secolo che va dal 2 ottobre 1950 al 13 febbraio del 2000, inizio e fine della lunga saga (quindi all’ingrosso dalla guerra di Corea alla mattanza balcanica, passando per la crisi dei missili, il Vietnam e il ’68), e nell’ovattata lontananza della dimensione favolosa abitata da queste delicate creature nate dalla punta acuta di una matita, la realtà si affaccia di tanto in tanto soprattutto attraverso i nomi di celebri sportivi che al lettore italiano ovviamente non dicono niente.
Eroi del baseball, principalmente, croce e delizia (più la prima che la seconda) di Charlie e situazione ricorrente nelle storie delle “personcine”, che attorno alla collinetta del lanciatore Brown escono dal ruolo consueto per imbastire con il loro sfortunato allenatore dialoghi scorati ed esilaranti, umoristici e patetici, prima e dopo partite perse anche con l’umiliante punteggio di 40 a zero. Basterebbe questo per dire che Schulz ha nel cuore e nella testa un Paese che poco somiglia a quello del propagandato dream, mitologia cinematografica nazionale – un po’ in ribasso, negli ultimi tempi – del successo a portata di mano e di volontà.
A differenza dei bambini di James M. Barrie (Peter Pan) quelli di Schulz vogliono crescere e aspettano di crescere, ma lo fanno come se sapessero che non arriveranno mai a diventare adulti, dato che per loro, creature del limbo e della speculativa potenzialità, la condizione adulta significherebbe la sparizione, il fuoriscena inquietante in cui sono relegati i genitori, con i quali di tanto in tanto interloquiscono polemicamente.
Ed ecco che l’incanto di quella purezza cogitabonda produce un indefinibile struggimento, una pena che somiglia a quella che si prova per un’occasione mancata, per qualcosa che avrebbe potuto essere e non è stato, per qualcosa che si sa impossibile ma, ciò nonostante, si continua a desiderare, o una strana nostalgia per una condizione aurorale nella quale per miracolo convivano smemoratezza infantile, stupore della scoperta e libero esercizio del pensiero.
Se questo è vero, non è strano ipotizzare che l’incanto di cui parlavo sia l’effetto di un’invidia: ai bambini-adulti di Schulz noi adulti e basta invidiamo la loro inquieta felicità in un mondo disegnato dove tutto scorre facendo ritorno a se stesso; dove la scuola ricomincia sempre dalla prima elementare, i genitori non invecchiano né muoiono, il “grande cocomero” non arriverà mai ma l’importante e tornare ad aspettarlo, e dove le domande sulla vita e il futuro non avranno una risposta definitiva, perché se l’avessero non ci sarebbe più gusto, o perché la cosa davvero importante sono le domande, non le risposte. È forse questa la “filosofia” dei Peanuts di cui si è spesso parlato, l’accento messo sull’intelligenza delle domande, ovvero sulla pluralità dei punti di vista?
La figura (la figurina) filosofica per eccellenza nell’universo incantato di Schulz è quella di Linus. Linus è un nevrotico assetato di conoscenza, e tra i molti personaggi della saga è quello che più oscilla e cambia, per poi inesorabilmente tornare il bambino con la coperta e il pollice in bocca. Io non so nulla in proposito, ma ho il sospetto che sia stato per l’autore la cellula inventiva primaria attorno alla quale è cresciuto e si è sviluppato tutto il resto.
Linus è buono, ragionante, ma non sempre; la sua lucidità ha momenti di offuscamento, e spesso è, come si dice, fuori dal mondo. È lontano mille miglia dall’ambizione di Lucy, ma imprevedibilmente lo vediamo cedere alla vanità di diventare presidente della scuola, salvo poi mandare all’aria una probabile vittoria deviando un comizio elettorale su un’ispirata apologia del “grande cocomero”.
Del resto, come potrebbe un protettore delle foglie che in autunno cadono lentamente dagli alberi far carriera politica?Potrebbe Lucy, se non la ostacolasse un carattere impossibile e un cinismo tanto esibito da diventare controproducente.
In Lucy Schulz sembra aver concentrato il negativo, l’antilirico, l’opposizione perenne di chi riconosce solamente il principio di competizione. Lucy non conosce mezze misure; franca, diretta, sgradevole, le sue sentenze e i suoi giudizi sono privi di sfumature; è lì per ricordare a tutti che la vita non è un pranzo di gala. È, nella levità, nella grazia favolosa di questo mondo in bianco e nero, la nera scheggia impazzita, il contraltare, il freudiano principio di realtà.
È, potremmo dire, l’inviata del nostro mondo in quello soave e dialogico creato dal demiurgo statunitense. Non si può che trovarla antipatica. Ma so per certo che Lucy soffre; non disprezziamola.
Con una siffatta sorella è costretto a fare quotidianamente i conti Linus. Potrebbe essere lei la causa del pollice e della coperta. In un microcosmo di genitori invisibili, Lucy è per il poeta Linus una spaventevole genitrice. Però guardiamoci dalle facili letture psicanalitiche. Qui c’entra solo la funzionalità narrativa, la comodità dello schema oppositivo che produce varianti drammaturgiche, situazioni, conflitti. Un’altra coppia è quella formata da Charlie e Linus, ma meno rigidamente definita: di solito Charlie fa le domande e Linus risponde, anche se le parti si possono invertire grazie a una somiglianza temperamentale, a una medesima malinconia di fondo.
A ben vedere, l’opposto di Charlie Brown – timido e arrendevole, spesso depresso e sfiduciato, capitano privo di carisma di una squadra che non vince mai – è Lucy, della quale non casualmente è la vittima predestinata.Triangolo artisticamente perfetto, dunque, con un quarto lato fantastico rappresentato da Snoopy, cane sofisticato e fantasioso, umano e canino a un tempo, capace di inventarsi le esistenze più improbabili, a cominciare da quella di aspirante scrittore i cui romanzi le case editrici puntualmente rifiutano.
Questo stare sulla soglia tra due nature fa di Snoopy un’invenzione nella linea spirituale kafkiana (intuizione sintetica taoista e visione allargata del possibile), del Kafka indagatore della striscia di terra in cui si anima il teatro monologante dell’incertezza tra uomo e bestia e qualcos’altro.Snoopy è infatti una creatura liminale, che obbliga i lettori a una divaricazione mentale inconsueta.
È letteralmente la potenza del fantastico, la celebrazione più longeva delle possibilità ideative della mente letteraria,il cui culmine sono i duetti con l’uccellino Woodstock, che parla una lingua di trattini che solo lui tra tutti i personaggi capisce.
Questa vicinanza metafisica tra animale e umano è probabilmente l’invenzione più straordinaria di Schulz, più della molte volte sottolineata cancellazione degli adulti.
Materializzando (rendendo visibile) il sogno di un luogo edenico in cui vige una comunicazione tra tutte le creature, non solo animali, l’artista di Minneapolis ha lasciato alla vasta comunità dei lettori la sua personale versione dell’utopia, offrendo agli interpreti una via per una stimolante esegesi politica della sua opera, al cui centro sta un’idea antica: la socratica convinzione che l’anima vitale delle comunità umane, della polis, ieri come oggi, si trova nel conflitto dialogico incessante in cui nulla è scontato e niente è al di sotto (o al di sopra) della discussione in punta di ragione. Lo sa e lo accetta anche Lucy, che fumando di stizza si inchina alla battuta migliore dell’interlocutore, anche il più detestato.
Nello sguardo sornione e allegro di Snoopy, nel suo ammirato e meditativo guardare il cielo di notte, nella camaleontica capacità di ricordarci con le sue altre esistenze (l’avvocato, il pilota imbattibile della Prima guerra mondiale, l’esploratore, il playboy…) che “una vita non basta”, c’è, mi pare, la miglior parte di noi umani. Così com’è quasi certo che è nella irreale profondità della sua cuccia che si nasconde il segreto del genio creativo di Charles M. Schulz, la formula magica della impeccabile unione di ritmo, pensiero e immaginazione.
(L’articolo è stato pubblicato tre anni fa su Palermograd)