di Tano Siracusa
Le guardavo, le posavo sul tavolo e tornavo a guardarle. Le esploravo, mi affascinavano, e pensavo che sarebbe stato diverso se non fossero state mie, i miei primi scatti con la pellicola, sviluppati e stampati da me, con l’assistenza di Antonio Vinciguerra.
Poi avrei guardato le prime foto di Roiter e Giacomelli con un incanto diverso, come un pittore alle prime armi può guardare un Cézanne.
Hai fatto centro al primo colpo, era stato il commento di Antonio, lui così rigoroso e solitamente avaro di apprezzamenti verso le foto degli altri.
Oggi so qual é stato il motivo di quel mio riuscito battesimo di fotografo.
Il cosiddetto talento fotografico è del tutto naturale e assi diffuso, ed é strano che così pochi lo facciano notare.
Il mirino, ciò che il fotografo inquadra, attiva in alcuni l’innata inclinazione ad uno sguardo frontale, contemplativo, non pratico, orientato alla ricerca della forma estetica. La stesso sguardo che alcuni, non tutti, attivano davanti a un’opera d’arte visiva.
Le fotografie africane di Cartier Bresson dei primi anni ’30 non sono meno bressoniane di quelle scattate quaranta anni dopo. Lo stesso vale per i primi disegni di Picasso e i suoi ultimi lavori; molto più raro il talento dei pittori, assai più diffuso quello dei fotografi, forse per il venir meno della manualità, di una richiesta di sua specifica, rara, attitudine, e per il carattere fondamentalmente passivo del loro sguardo.
La cultura, la ricerca, il percorso stilistico a volte tortuoso, seguono il solco tracciato dal talento naturale. Anche quando le svolte, le discontinuità sono radicali.
La diffusione del digitale ha enormemente accresciuto il numero delle fotografie scattate e le maglie delle reti che dovrebbero filtrarle, mentre il mercato dell’arte asseconda le tendenze a una semplificazione formale e ad una complicazione concettuale delle immagini fotografiche.
Il panorama così cambiato della fotografia contemporanea tuttavia non smentisce, se mai conferma la tendenza a una semplificazione visiva che non impegna neppure l’attesa dell’istante, il confronto con il tempo reale.
Oggi è perciò ancora più probabile di 35 anni fa che un fotografo inquadri sul monitor i suoi primi scatti e che subito ’piacciano’, a lui, al pubblico della rete e a quelli più esperti, che magari gli diranno di aver fatto centro al primo colpo.
L’unica cosa cambiata rispetto al mondo della fotografia analogica è l’immaterialità dell’immagine. Allora una fotografia non esisteva se non veniva stampata, e vederla apparire formicolando negli acidi, vederla sgocciolare nella luce rossastra della camera oscura, era molto diverso che trovarla stampata anche da un bravo professionista.
Quel rapporto diretto e fisico, l’identificazione delle fotografie con le stampe, la loro inevitabile scarsità, si sono perse nel flusso caotico delle fotografie on line, che si sottraggono alla lenta, affascinata e insoddisfatta perlustrazione delle stampe messe ad asciugare. Chiusa la camera oscura, le poche stampe affidate a eccellenti laboratori si lasciano guardare oggi con uguale attenzione, ma non hanno più l’aura di quelle stampe spesso sbagliate.