di Vito Bianco
Tre piani, il nuovo film di Nanni Moretti in concorso all’ultimo Festival di Cannes e da qualche giorno nei cinema italiani, è un’opera deludente e un caso quasi da manuale di come non si deve trasportare sullo schermo un libro, in questo caso l’omonimo romanzo (ma sarebbe meglio parlare di tre racconti lunghi che si toccano) dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, edito da Neri Pozza.
Moretti riambienta le vicende del libro a Roma, il set di tutti i suoi lungometraggi tranne Palombella rossa, un cambiamento di luogo che in nulla modifica o condiziona l’intreccio e le dinamiche psicologiche dei personaggi, essendo universali la fragilità, il senso di solitudine e i dolorosi equivoci di una mancata vera comunicazione tra persone talvolta troppo vicine o distratte per potersi davvero vedere e ascoltare.
Tutti i protagonisti abitano in uno stesso palazzo, nei tre piani del titolo.
Al piano terra una giovane coppia con una bambina di sette anni: Riccardo Scamarcio e Elena Lietti; poi, salendo, due coniugi anziani (Paolo Graziosi e Anna Bonaiuto), una donna alla prima gravidanza con un marito spesso assente per lavoro (Adriano Giannini e Alba Rohrwacher), e due giudici non più giovani ma ancora in servizio: lui severo e intransigente, lei remissiva e accomodante (un mono-tono Moretti e una Margherita Buy un po’ spaesata).
Esistenze borghesi che sembrano scorrere tranquille fino a quando un evento traumatico, o presunto tale (la molestia inesistente della quale Scamarcio accusa il pensionato Graziosi) non le mette alla prova: la bambina che si perde nel parco vicino col signore anziano – non più del tutto in sé – al quale il padre l’aveva affidata; il figlio ubriaco dei magistrati che investe e uccide una donna; i primi segni di squilibrio nella neomamma costretta a una ripetuta, e logorante, solitudine.
Nevo, per raccontare tutto questo usa una lingua densa, precisa, analitica che dà corpo alla progressione dei dolori e dei disagi interiori dei personaggi; usa insomma i mezzi tipici della letteratura, che ovviamente non sono quelli del cinema, compreso il “monologo telefonico” con cui la vedova inanella i pezzi della sua lunga storia coniugale e riesce finalmente a dire al marito defunto quel che mai aveva avuto il coraggio – o la forza – di dirgli.
Moretti e i cosceneggiatori Federica Pontremoli e Valia Santella anziché sforzarsi di trovare un corrispettivo cinematografico capace di rendere l’articolazione drammaturgica del triplice racconto di Nevo, si limitano a illustrarlo meccanicamente; ritagliano e incollano quando avrebbero dovuto cercare soluzioni visive e di scrittura in grado di tradurlo e reinventarlo per il nuovo mezzo.
Il risultato di un’operazione così poco creativa non poteva che essere quello che si vede: un film inerte, spento, un dramma freddo e poco comprensibile che lascia indifferenti, che gli attori si sforzano inutilmente di rianimare, costretti come sono a mimare, a “recitare” la sofferenza più che a viverla per farcela sentire e capire.
Un film di didascalie animate, di scene prevedivili, convenzionali, dove l’unico sussulto è dato dall’apparizione dei ballerini di tango che sfilano davanti ai protagonisti riuniti nel finale, dieci anni dopo: qualcuno non c’è più, la giudice ritrova il figlio e va a vivere altrove, i bambini sono cresciuti, tanto seri e responsabili che fanno venir voglia di sperare nel futuro…
Nanni Moretti, che voleva vincere a Cannes, che vuole sempre vincere, farebbe bene a tener conto più delle critiche che degli applausi; ma sappiamo già che non lo farà.