di Giulia Laiola
Teresa non esce piu’ di casa da almeno dieci anni, preferisce rimanere nel suo microcosmo al sicuro dagli affanni esterni.
Da quando una notte di dieci anni fa è caduta rompendosi il femore ha deciso, una volta dimessa dall’ospedale, che non sarebbe stata più in grado di affrontare il mondo, la vita.
Dunque eccola lì dentro avvolta nel suo scialle un po’ liso, ma pulito che odora di rose selvatiche.
La radio accesa le tiene compagnia, piu’ della televisione o dei libri.
Ne ha letti molti nella sua vita, di libri, ma adesso, quando prova a mettersi comoda sul divano non riesce più ad appassionarsi ad alcuna storia, ché non riesce a identificarsi con i personaggi e allora si rifiuta di perdere tempo, che magari poco gliene resta.
E poi alla sua età ha perso la voglia e la fantasia di immaginarsi in vite che non sono la sua.
Crede di aver già visto tutto e forse avrà fatto pure tutto nel corso degli anni, Teresa.
E’ vero anche che ha lavorato tanto.
In un tempo che adesso le sembra lontanissimo, come quei ricordi impressi in una foto antica dove i volti sembrano corrosi e non più facilmente riconoscibili, ha gestito un panificio assieme al marito che aveva, un po’ a malincuore, ereditato dal padre.
Era molto faticoso e per troppi anni si è privata di ogni cosa, di tutte le amenità possibili e ogni giorno era uguale al precedente, sveglia all’alba e poi dalla mattina alla sera in piedi a servire i suoi clienti.
E mentre tutto intorno a lei si evolveva, cambiava e le stagioni si inseguivano, per Teresa era tutto uguale senza pause o soste.
La sua vita altro non era che un’ eterna ripetizione meccanica e usurata del quotidiano.
Neppure l’arrivo di Celeste, figlia tanto desiderata, riusciva a dare un senso a quella ossessiva e alienante ripetitività.
Non passavo a trovarla da un paio di mesi, certamente non per mancanza di tempo o presunti impegni improrogabili, ma per la necessità impellente di non farmi travolgere dalla sua eterna malinconia.
E per non farmi prendere dall’inquietudine, e dal pensiero angosciante che possa essere l’ ultima volta che la vedo.
Per questa ragione centellino i nostri incontri, per non soffrire in seguito.
E’ felice di vedermi, mi dice, mentre cerca goffamente di abbracciarmi, temeva che non stessi bene, aveva avuto un incubo l’altra notte, mi vedeva tuffare da uno scoglio e non riuscire più a risalire per via del mare agitato.
Teresa è sempre stata legata ai sogni ai quali ha sempre attribuito un ruolo premonitore, tanto da essere fermamente convinta d’ avere una sorta di capacità vaticinante.
Ma adesso che sono lì, si sente più serena e ci tiene tanto a prepararmi un caffè.
Le viene molto buono, è da sempre stata la sua specialità, non avendo altre doti in cucina.
Ma è anche una specie di rituale di quando vado a trovarla ed anche un ottimo pretesto per fumare, finalmente in compagnia.
Non posso certo biasimarla è un piccolo piacere che si concede molto di rado.
Lo vedo da come aspira con voluttà, trattenendo il fumo ed espirando come se fosse un esercizio di rilassamento.
La sua mano nodosa trema un po’ quando porta la sigaretta sulle labbra avvizzite, tiene lo sguardo fisso in un punto e le sue pupille si restringono ora che un raggio di sole inonda la fredda cucina.
Chissà a che pensa. Cosa pensa una donna di ottantacinque anni compiuti da poco; è un pensiero tutto rivolto al passato, al suo vissuto? O è il nulla che incombe, giacché si trova in prossimità del traguardo? Probabilmente la mia è solo una banale considerazione, un po’ come quella di chi ha la vita davanti o crede di averla.
A volte mi sembra felice in questa condizione di cattività che si è auto inflitta.
Altre mi sembra solo che viva la consapevole espiazione dello sconforto e della sofferenza che aveva provocato al marito e alla piccola Celeste, tanti anni fa.
E’ una vecchia storia, ma che diede da parlare per mesi alla gente del paese in cui viveva.
Un giorno di fine maggio Teresa si sveglia di buon ora seguendo il suo rituale quotidiano per andare al lavoro, si trucca con cura, indossa un abito a fiori leggero, beve con calma il caffè caldo mentre attende con leggera inquietudine l’arrivo di Laura, la ragazza che si occupa di Celeste.
Lei è lì che dorme serafica e ignara di tutto cio’ che sta per accadere, il suo respiro è regolare, il viso roseo e beato.
L’accarezza piano e le bacia tra i capelli che sanno di vaniglia e di latte.
Rassicura Laura dicendole che tornerà prima dal lavoro chè ha voglia di tenersi stretta stretta Celeste.
In realtà Teresa non tornerà prima a casa, né dopo, né il giorno seguente.
Se ne era andata via, aveva lasciato tutti, aveva abbandonato tutti.
In modo vile, senza sensi di colpa, in modo premeditato e innaturale ha abbandonato mio nonno e mia madre Celeste.
Inutile dire che non l’ha mai perdonata nessuno, neppure una tregua quando sono nata io, che di anni adesso ne ho venticinque.
Mia nonna Teresa, anzi solo Teresa come vuole lei, non mi ha mai spiegato il perché di quel tragico abbandono.
Mi ha promesso, però, che lo scriverà, lo spiegherà a tutti per iscritto, solo così dice di sentirsi a suo agio, scrivendo.
Io sono l’unica che l’ha perdonata, forse perché sono quella che ha sofferto meno in tutta questa storia o forse perché sono mossa dalla compassione nel vederla così triste e pentita e…sola.
O forse perché sono consapevole che è nelle umane cose operare scelte irrazionali, chè ognuno è mosso dalle proprie imperscrutabili ragioni.
Giocherella un po’ col mozzicone della sigaretta, prima di deporlo sul posacenere, mentre alla radio sta passando una vecchia canzone, quella che Teresa ballava col nonno guancia a guancia, di due che si incontrano dopo tanto tempo, per caso e che non hanno mai smesso di amarsi.
Allora lei con uno scatto improvviso, si toglie lo scialle mi porge la mano e mi dice con la sua voce roca “ dai vieni, balliamo”.
Ed io, per non deluderla, accolgo con dolcezza la sua mano sottile, e le dico “Va bene. Balliamo.”