di Vito Bianco
Rileggendo con intelligenza, in un libro di un paio d’anni fa (L’apparazione dell’altro) la tradizione filosofica occidentale, incardinata sulla logica degli opposti e del “terzo escluso”, e alla ricerca del modo in cui è possibile fare esperienza dell’alterità senza finire per ricondurla allo stesso o al simile, François Jullien, filosofo e sinologo, non può fare a meno di fermarsi, seppure per poco, sulla poesia, il luogo per eccellenza dello “scarto” e dell’incontro con “l’altro”, che nel penultimo capitolo diventa l'”inaudito”, l’indicibile reale, che interrompe la monotona ripetizione dei giorni e invita a trovare il diverso in ciò che più somiglia al già dato e al già vissuto. Jullien invita a “pensare contro la lingua”, ad allargare la distanza di termini accolti come sinonimi o quasi (per esempio, “piacere” e “godimento”, “ripetizione” e “ripresa”), un esercizio che la poesia compie fin dalle sue origini e in modo più visibile e accentuato a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, quando il “parlare contro la lingua” o il “far parlare la lingua” diventa uno dei suoi tratti distintivi.
La lingua poetica è, in effetti, un procedere per scarti, per deviazioni, per inversioni del senso comune. Parlare contro la lingua significa starci dentro sognando di superarne i confini a forza di straniamento, di effrazioni e forzature. Condannato a restare nella lingua, il poeta non fa che tentare evasioni, che immaginare una più perfetta dicibilità; dice ciò che riesce a dire mentre spera nell’invenzione di un altro linguaggio per arrivare più lontano, non si sa bene dove. In fondo, ogni testo poetico non ha che un unico tema: la premonizione di questo linguaggio a venire; non è altro che il fantasma turbato di questo “altro” impossibile. La poesia, potremmo dire, è “la lingua straniera” nella lingua, il diverso che non diventa mai uguale né simile, il luogo per eccellenza della possibilità e dell’inaudito, del reale sotto il reale. Essa non procede per immagini o metafore, ma per scarti, mosse del cavallo, follie programmate, tensioni portate al punto di rottura.
La metafora è uno dei suoi mezzi, ma non il principale; ciò che conta è il principio che la fa esistere e la spinge avanti, la regola del paradosso e dello spiazzamento, del “controsenso” e dell’accordo dialettico tra visione e suono. Qualche rapida esemplificazione: Dickinson: “Salvi nelle loro stanze d’alabastro/intoccati dal mattino/e intoccati dal pomeriggio; Celan: “Riunito è ciò che vedemmo/a prendere congedo da te e da me:/il mare che scagliò notti alla nostra spiaggia”; Sereni: “La splendida la delirante pioggia si è quietata”; “Non sa più nulla, è alto sulle ali/il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna”. La poesia è una sorta di metorite verbale che mette ogni volta in questione la naturalità del nostro rapporto con la lingua dentro cui siamo, ce ne distacca, ci fa toccare con mano (con l’orecchio) quanto debole e precaria sia la nostra aderenza a lei e la sua al reale, che mostra di riferire così bene, così adeguatamente. Niente resta com’era dopo il suo passaggio, ascolto o lettura. Se lascia la lingua (la visione) che trova, non è poesia. Ma si sbaglierebbe a pensare ad alcunché di misterioso o mistico. Le poesie, ha scritto Czeław Miłosz, “sgorgano nella presenza e si fermano lì, sbattendo le palpebre e agitando le code. Rompono per così dire la barriera della stampa, e fanno udire il loro boato all’orecchio”. Può non essere un boato, ma un suono più discreto. La coda che si agita però non manca mai.