di Tano Siracusa
Al confine con la Cina, Dashbalbar dieci anni fa sembrava un frammento di Mongolia che lasciava cogliere in trasparenza una nuova vernice di modernità, una nuova passata dopo quella lasciata dai sovietici. Più di una vernice, in realtà, l’eredità comunista: una grande scuola, un ospedale, naturalmente diretti da donne formidabili, e addirittura un teatro, un grande teatro.
Da Ulan Bator il viaggio attraverso la steppa dura un giorno, una ipnotica onda verde punteggiata ogni tanto dalle mandrie di cavalli e cammelli o da una yurta, la tenda tradizionale mongola, o da un vagone ferroviario abitato da una piccola famiglia.
Mi raccontava Aldo Lo Curto che solo un paio di anni prima a Dashbalbar andavano tutti a cavallo. Adesso usavano le moto anche per governare le mandrie dei misteriosi cammelli.
Ma neppure questa sarebbe stata una semplice passata di vernice, le motociclette e soprattutto la passione dei cellulari, il cellulare sul cavallo, la prodigiosa, luccicante epifania al teatro di una grande mostra-mercato di cellulari. In un posto dove non esiste una moschea, una chiesa, un tempio, i cellulari luccicavano come una nuova promessa di felicità.
E tuttavia l’effetto trasparenza dieci anni fa persisteva. Il permanere in primo piano della steppa, delle sue distanze, e gli animali, i cavalli, i cammelli e i cani come lupi a Dashbalbar, ad aspettare che le donne al teatro si stancassero di danzare e che gli uomini smaltissero la sbornia.