di Nino Cuffaro
L’aggressione dell’Ucraina e le conseguenti sanzioni alla Russia hanno provocato un rialzo molto sostenuto del prezzo del gas, passato da 19 centesimi di euro al metro cubo del dicembre scorso a 87 centesimi di marzo, con un incremento di circa il 400%. Ma l’aumento vertiginoso non è la sola ragione d’allarme. L’Italia consuma ogni anno circa 76 miliardi di metri cubi di gas, di cui 29 importati dalla Russia attraverso gasdotti. L’arrivo del gas russo, ovviamente, è sempre più a rischio ed è quanto mai urgente sostituire queste importazioni con il ricorso ad altri paesi, ovvero ad altre fonti di energia. La possibilità di importare più gas da altri paesi produttori (Stati Uniti, Qatar, Australia, Canada, Arabia Saudita) non collegati al nostro paese con metanodotti passa necessariamente attraverso la costruzione di nuovi rigassificatori. In Italia oggi ne esistono tre: quello offshore di Rovigo, a circa 15 km dalla costa, che ha una capacità di 8 miliardi di metri cubi; quello di La Spezia che ha una capacità di 3,5 miliardi di metri cubi; quello offshore di Livorno, situato a 22 km dalla costa con una capacità di circa 3,75 miliardi di metri cubi. Si tratta di impianti prossimi alla saturazione della loro capacità e l’eventuale ampliamento della capacità di rigassificazione nazionale passa necessariamente attraverso la costruzione di nuovi impianti. Ecco, allora, entrare in gioco il progetto dell’impianto di rigassificazione di Porto Empedocle.
Cos’è un rigassificatore
Nei metanodotti il gas viaggia sotto forma gassosa, ma dovendolo trasportare con le navi è necessario renderlo in forma liquida, in modo da stivarne una quantità notevolmente superiore: così, una sola nave può contenere grandi quantità di gas rendendo il trasporto economicamente sostenibile. Una nave metaniera può trasportare fino a 266.000 metri cubi di GNL (Gas Naturale Liquefatto) equivalente a circa 160 milioni di metri cubi di prodotto in forma gassosa. Arrivato a destinazione il GNL, per essere immesso nella rete di metanodotti che lo trasportano al luogo di consumo, necessita di essere ritrasformato in forma gassosa. Operazione, questa, compiuta proprio dai rigassificatori. Se la liquefazione richiede che il gas venga portato ad una temperatura critica di –162 ºC, che si raggiuge alla enorme pressione 45,8 atmosfere, la rigassificazione consiste nel riscaldare il GNL fino al punto in cui ritorna allo stato gassoso. Al termine di questo processo si determina una naturale espansione del suo volume, e il metano diventa idoneo ad essere convogliato nella rete nazionale del gas attraverso il metanodotto.
L’impianto previsto a Porto Empedocle
L’iter per la costruzione del rigassificatore viene avviato il 18 agosto 2004 con la presentazione del progetto alla Direzione generale per le infrastrutture e la sicurezza dei sistemi energetici della regione siciliana da parte della società Nuove Energie srl: una società con poche migliaia di euro di capitale presenta un progetto di un’opera altamente tecnologica senza possederne le capacità industriali e, soprattutto, i capitali da investire, allora quantificati in 800 milioni di euro. Qualunque ufficio pubblico serio avrebbe immediatamente buttato nel cestino la richiesta. Invece, il progetto va avanti. Si tratta di un rigassificatore con una capacità di 8 milioni di metri cubi all’anno, con due serbatoi parzialmente interrati di 160.000 metri cubi. Il 22 dicembre 2005 viene convocata la conferenza di servizio con tutti gli enti interessati al rilascio delle autorizzazioni. Il 29 agosto 2008 viene approvata la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) e il 22 ottobre 2009 la giunta regionale, di concerto al ministero dell’ambiente e delle infrastrutture, rilascia l’autorizzazione alla costruzione dell’impianto. In seguito alla concessione dell’autorizzazione, l’Enel acquisisce la società e si intesta il piano di investimenti: un affarone per i soci della Nuove Energie srl che avranno guadagnato qualche milione di euro (quanti non è dato di sapere) spendendone poche migliaia. In Sicilia i grandi affari sono sempre circondati da zone d’ombra. Cominciati i lavori nell’area portuale, l’autorizzazione viene impugnata davanti al TAR nel gennaio del 2010 dal comune di Agrigento e da diverse associazioni ambientaliste, tra cui il comitato cittadino “No Rigassificatore”. L’opposizione all’opera si fonda su diverse ragioni: innanzitutto l’inopportunità di costruire un impianto a ridosso del centro abitato. Il metano è un gas altamente infiammabile e questo pone i rigassificatori ad un livello di pericolosità tra i più alti degli impianti industriali. Poi, va considerato l’inquinamento marino dovuto al raffreddamento delle acque e al rilascio di sostanze tossiche nel processo di trattamento del GNL. Infine, l’inquinamento visivo procurato sia dall’impianto che dalle gigantesche navi metaniere alla fonda.
La vertenza vede da un lato gli ambientalisti, il comune di Agrigento con il sindaco Marco Zambuto, il comitato cittadino “No rigassificatore”; dall’altra parte l’Enel, i partiti, i sindacati e il sindaco di Porto Empedocle Lillo Firetto (già dipendente dell’Enel), attratto anche dai finanziamenti compensativi destinati dall’Enel al bilancio comunale.
Il TAR accoglie l’opposizione e blocca i lavori, ma il Consiglio di Stato, su ricorso della società Nuove Energie, ribalta la sentenza del TAR. I lavori, comunque, vanno a rilento. Nel 2013 la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, in seguito al ritrovamento, nelle tasche di mafiosi arrestati, di alcuni pizzini che fanno riferimento a ditte interessate ai lavori del rigassificatore e alla presenza di un capocantiere esponente di una famiglia mafiosa empedoclina, dispone il sequestro di una parte del cantiere, ipotizzando il reato di frode in pubbliche forniture con l’aggravante di aver favorito la mafia. Nel 2016 l’aggravante mafiosa cade e l’inchiesta viene trasmessa alla procura di Agrigento, senza che ci siano stati ulteriori sviluppi.
Nonostante la bocciatura del ricorso da parte del Consiglio di Stato, l’opposizione al rigassificatore non smobilita e nel 2015 il tema diventa oggetto della campagna elettorale amministrativa, con il candidato sindaco Lillo Firetto che si impegna a rispettare i risultati del referendum consultivo cittadino, indetto da Marco Zambuto, che ha visto i cittadini agrigentini pronunciarsi a grande maggioranza contro il rigassificatore. La sensazione, comunque, è che quell’opera oramai non interessi più all’Enel, che per ragioni economiche avrebbe accantonato il progetto. Questa tesi viene sposata da Lillo Firetto, per rintuzzare gli attacchi del comitato “No Rigassificatore”, e da Legambiente che lo appoggia nella campagna elettorale.
Il rigassificatore per funzionare ha bisogno dell’allaccio alla rete nazionale del gas. Quindi è necessario realizzare una condotta che dal porto arrivi al punto più vicino situato nel comune di Joppolo Giancaxio. La tubazione interrata parte dall’area Asi di Porto Empedocle e arriva al comune di Joppolo Giancaxio, per una lunghezza complessiva di 13 km, attraversando per 8 km il territorio del comune di Agrigento. Così nel 2018, l’amministrazione di Agrigento, nel frattempo passata alla guida di Lillo Firetto, presenta un ricorso gerarchico contro l’assessorato regionale dell’Energia e dei Servizi di pubblica utilità per ottenere l’annullamento del decreto del 2013 con il quale si autorizzava il progetto di realizzazione del gasdotto che, attraversando in parte anche il territorio del capoluogo, “è destinato ad avere un notevole impatto su un territorio con un considerevole patrimonio storico, artistico e culturale”. Il ricorso viene respinto dal Presidente della regione. L’ultimo ricorso, presentato al TAR, sempre per bloccare il gasdotto Porto Empedocle-Joppolo Giancaxio, viene anch’esso respinto. La decisione del TAR è arrivata a metà del febbraio scorso. Secondo i giudici ““Il ricorso del Comune non è fondato visto che le questioni tecniche sollevate sono state oggetto di specifici approfondimenti nel corso del procedimento e che ci sono stati pareri positivi sull’opera da parte della Soprintendenza e del Genio Civile». Stando così le cose, dal punto di vista autorizzativo, nulla osta alla realizzazione del rigassificatore.
Ma il rigassificatore è un impianto sicuro? E poi, aiuta lo sviluppo del territorio?
I rischi
I pericoli che riguardano l’esercizio di un rigassificatore sono legati soprattutto ai rischi potenziali dell’impianto stesso, in quanto atto a lavorare grosse quantità di un elemento, il metano, altamente infiammabile. Per questa ragione tutti i siti sono sottoposti alle direttive Seveso, ossia di impianti a rischio di incidente rilevante al pari delle raffinerie petrolifere. Gli studi condotti riguardo al rischio potenziale dei rigassificatori sono legati a modelli teorici, in quanto finora un incidente di grosse proporzioni non si è mai verificato. L’incidente più grave si è accaduto nel 1944 a Cleveland, negli USA, dove si è avuta un’esplosione di gas che ha provocato 130 morti. Si tratta, però, di un incidente accaduto ad un rigassificatore realizzato con tecnologia superata e non paragonabile alla tecnologia attuale. Comunque, fa impressione leggere negli studi scientifici che un’eventuale esplosione del metano contenuto in una metaniera o nei depositi di un rigassificatore come quello previsto a Porto Empedocle (che sarebbe il più grande in Italia), sprigionerebbe una quantità di energia dell’ordine di grandezza di una bomba atomica, anche se non si liberebbe tutta immediatamente ma su un tempo relativamente più lungo necessario a bruciare tutto il gas. E non è un caso che due dei tre rigassificatori costruiti in Italia siano al largo della costa e l’unico che è basato a terra, quello di La Spezia, ha una capacità di meno della metà di quella prevista a Porto Empedocle.
A prescindere dagli aspetti legati alla sicurezza, altri problemi rilevanti solo legati alla salvaguardia dell’abitat marino. I rigassificatori a “circuito aperto” come quello di Porto Empedocle prelevano acqua di mare per riportare allo stato gassoso il GNL (sulle navi il metano arriva a -162°), restituendola a fine ciclo al mare più fredda e clorata. Il cloro viene utilizzato per impedire la naturale colonizzazione delle tubature da parte di alghe ed altri organismi viventi. Si tratta di quantitativi di acqua notevoli, dell’ordine di 600.000 metri cubi al giorno che, trattate con cloro, rilasciano sostanze tossiche e mutagene, i cloro-derivati organici: bromoformio, trialometani, clorammine. Inoltre, la sterilizzazione della massa d’acqua in ingresso determina l’eliminazione degli organismi costituenti lo zooplacton, delle uova e delle larve di pesce, con conseguente impoverimento del mare e formazione di schiume. Infine, la funzione antibatterica svolta dal cloro, a lungo andare può provocare una selezione artificiale a favore di specie batteriche resistenti al processo di clorazione. Questi aspetti di impatto ambientale negativo, legati alla tipologia di funzionamento cosiddetta “a circuito aperto”, dove il calore utile alla gassificazione del GNL proviene dall’acqua, potrebbero essere evitati ricorrendo ad altre tecnologie di tipo “a circuito chiuso” in cui il calore necessario alla trasformazione di stato avviene bruciando una piccola parte del metano trattato (l’1% circa). Questa seconda modalità di rigassificazione è vivamente consigliata da uno studio del comitato scientifico del WWF, ma non è gradita dalle aziende perché più costosa. Da ultimo, vanno considerate le emissioni in atmosfera di inquinanti quali: ossidi di azoto, ossidi di zolfo, monossido di carbonio, polveri fini, metano.
La VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) fa espressamente obbligo all’Enel di elaborare un protocollo d’intesa con l’ARPA (Azienda Regionale per la Protezione Ambientale) per il monitoraggio della qualità dell’aria e per il controllo dell’ambiente marino costiero, diretto al rilevamento di parametri fisici e biochimici derivanti dall’impiego del cloro nel circuito delle acque. Visti i controlli blandi operati su altri siti industriali dell’isola (si pensi alla grave situazione sanitaria di Gela determinata dal petrolchimico) non c’è da stare tranquilli.
L’ultimo rischio da valutare è relativo all’impatto paesaggistico e ai possibili danni al turismo. Negli ultimi anni, grazie anche ai social network, si è creata un’immagine forte di Agrigento e del suo comprensorio. Nel raggio di pochi chilometri è concentrato un patrimonio ambientale, archeologico e culturale di valore inestimabile: il Parco e la casa di Pirandello, proprio ad un tiro di schioppo dal sito del rigassificatore; la scala dei turchi, le cui acque verrebbero raffreddate e rese non balneabili dal processo di rigassificazione; la riserva di Punta Bianca; la Valle dei Templi tutelata dall’Unesco; il giardino della Kolymbethra.
La classe politica, in larghissima parte schierata a favore dell’opera, è consapevole dei danni di immagine che l’ingombro, il pericolo e l’attività del rigassificatore e delle mastodontiche navi metaniere alla fonda creeranno alle nostre aspirazioni turistiche?
Gli aspetti economici
L’investimento stimato, a seconda delle fonti, varia tra 1 e 1,5 miliardi di euro. I lavori dovrebbero durare 4 anni e mezzo ed impiegare circa 500 persone. A lavori completati, tra assunzioni dirette e indotto si parla di 150/200 addetti. Queste assunzioni, più alcune misure di compensazione che l’Enel potrebbe elargire ai comuni interessati (Porto Empedocle e Agrigento), hanno spostato quasi tutta la classe politica e i sindacati a favore dell’opera, con toni molto celebrativi, quasi si trattasse di aprire un nuovo capitolo di sviluppo vigoroso e duraturo per il territorio agrigentino. A ben vedere non è così. La Sicilia non ha deficit di energia. Anzi, produce più energia di quanta ne consumi, esportando una parte della sua produzione oltre lo stretto. Il metano che verrà rigassificato a Porto Empedocle non sarà consumato nell’isola, ma trasporto al nord tramite la rete di metanodotti. Pertanto, non dobbiamo attenderci alcuno sviluppo aggiuntivo. Dei lavoratori attesi per l’esercizio del rigassificatore, bisogna ragionevolmente pensare che la maggior parte saranno tecnici specializzati, ingeneri e chimici che l’Enel molto probabilmente porterà da fuori. Alla fine resteranno le briciole di qualche decina di impiegati, mentre ci faremo carico di tutti i rischi e dei danni ingenti per aver sviato dall’unico modello di sviluppo sostenibile e praticabile: il modello basato sulla valorizzazione dell’ambiente, del cibo, della cultura, delle straordinarie testimonianze archeologiche del nostro territorio.
Ma questo rigassificatore è proprio necessario?
Ovviamente, se il rigassificatore fosse strettamente necessario al paese, il nostro dovere di solidarietà verso la comunità nazionale ci imporrebbe di accettare dei sacrifici in nome del bene superiore della nazione. Anche se, per la verità, potremmo evidenziare che di sacrifici la Sicilia se n’è accollati in passato e continua a patirne tanti: dalla carenza di infrastrutture alla presenza di industrie strategiche per il paese, ma altamente nocive per i siciliani, basti pensare ai poli petrolchimici di Gela, Milazzo e Priolo. Senza contare le servitù militari, a volte anche molto pericolose come il MUOS (Mobile User Objective System) dell’esercito americano basato a Niscemi. Un impianto di trasmissione satellitare le cui antenne potentissime bombardano il 90% della popolazione dell’isola con emissioni di radiazioni elettromagnetiche, i cui effetti sulla salute li scopriremo tra qualche decina di anni.
Il rigassificatore non risolve un problema energetico nell’immediato, poiché la sua costruzione e messa in esercizio richiede dai 4 ai 5 anni. E allora, non è possibile percorrere altre strade alternative, magari più efficienti?
La COP26 (Conference of Parties, l’appuntamento annuale dei Paesi che hanno ratificato la convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) ha riunito i leader mondiali per agire insieme al fine di limitare l’aumento eccessivo della temperatura globale. Gli obiettivi principali della COP26 sono i seguenti: impegnarsi a raggiungere obiettivi più ambiziosi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2030; azzerare le emissioni nette entro il 2050. Lo scopo dichiarato è quello di contenere l’aumento delle temperature non oltre 1,5 gradi, per scongiurare catastrofi planetarie. Tutto questo è possibile (si spera) accelerando l’eliminazione del carbone, riducendo l’uso degli altri combustibili fossili (compreso il metano che ha un effetto serra molto più potente dell’anidride carbonica), limitando la deforestazione ed incrementando l’utilizzo di energie rinnovabili. Se questo è il quadro di riferimento, è un controsenso costruire rigassificatori, mentre dovremmo orientarci verso altre misure.
In una recentissima analisi di Ecco, think tank (pensatoio) italiano per il clima, si evidenzia come alcune misure di contenimento dei consumi di riscaldamento (abbassare la temperatura di 1-2 gradi) e il rilancio delle fonti rinnovabili (che coprono già il 40% del fabbisogno di energia elettrica e i cui costi sono ora più bassi delle fonti di energia fossili) permetterebbero all’Italia di sostituire circa il 50% delle importazioni dalla Russia entro il prossimo inverno. Quindi, un massiccio ricorso alle rinnovabili (per esempio imponendo l’installazione di pannelli fotovoltaici nelle nuove costruzioni e nelle ristrutturazioni edilizie) potrebbe sostituire i pochi anni il gas russo e avvicinare l’Italia al rispetto degli impegni presi con la COP26.
Pertanto, potremmo fare a meno del rigassificatore. Anzi, dovremmo.
A chi giova il rigassificatore?
Sicuramente all’Enel, visti i prezzi in salita del Metano. Inoltre, va considerato che anche nell’ipotesi, non improbabile in un futuro prossimo, di parziale utilizzo dell’impianto, il gestore avrebbe comunque un guadagno assicurato. Quando ancora si considerava il gas una fonte ecologica, l’ARERA (autorità per la regolazione dei servizi di energia elettrica e del gas), per invogliare la costruzione di rigassificatori, ha emanato due delibere (la n. 178 del 2005 e la n. 92 del 2008) con le quali assicura ai gestori di incassare almeno il 71% delle royalties calcolate sulla capacità nominale di rigassificazione (per Porto Empedocle 8 miliardi di metri cubi all’anno), per tutta la durata dell’impianto, indipendentemente dalla materia effettivamente lavorata. In sostanza, anche in caso di utilizzo parziale o addirittura di inattività, ai gestori verrebbe comunque assicurato l’introito minimo prestabilito. I costi verrebbero poi scaricati da ARERA sulle bollette dei consumatori.
La realizzazione dell’impianto fa gola anche alle cosche mafiose, che in provincia abbondano. Ci siamo concessi anche il lusso di avere due mafie: Cosa Nostra e la Stiddra. Gli interessi criminali sono stati palesati dalle indagini della DDA nel 2013 che portarono anche al sequestro parziale del cantiere del rigassificatore. Le mafie sono interessate ai sub-appalti e all’intermediazione di materiali, forniture, servizi e manodopera, oltre che, ça va sans dire, ad imporre il pizzo alle aziende aggiudicatarie. L’esperienza ci insegna che, purtroppo, non servono i protocolli di legalità (sempre stipulati in queste occasioni) senza il controllo del territorio.
Una piccola utilità potrebbero ricavarla anche i comuni vicini, grazie alle “compensazioni” generose che l’Enel elargirebbe, oltre quelle già pagate nel decennio scorso, per un ammontare di qualche decina di milioni di euro: una boccata d’ossigeno per le casse disastrate degli enti locali.
Poi, dulcis in fundo, vasti settori della politica abituata a gestire clientele e a intermediare assunzioni (l’esempio di Girgenti Acque è da scuola) a cui fa gola la gestione delle 500 chiamate per la costruzione dell’impianto. Si prospettano carriere politiche da consolidare o per costruire il “nuovo” ceto politico.
Questo insieme di interessi forse determinerà la costruzione di un rigassificatore che arriverà fuori tempo, ma che riempirà le tasche di alcuni e faciliterà le carriere politiche dei soliti noti, eternamente inossidabili.