di Livio Cavaleri
Questa è una storia vera, cioè tratta da episodi inverosimili. In altre parole una favola, ispirata a un incubo. Una cosa da ridere e quindi – spiegherebbe Monicelli – da piangere. È una vicenda banale, abbastanza comune da queste parti, eppure sorprende e basisce a ogni occorrenza. Sopra ogni altra cosa, è il principale argomento a sostegno di una tesi: Agrigento non esiste.
Agrigento, leggenda metropolitana e rurale, conta 60 mila abitanti, ospita la Valle dei Templi, è il paese natale di Luigi Pirandello. Questo secondo la retorica mainstream . Secondo qualcun altro, qualcuno che gradisce restare anonimo, Agrigento piuttosto è ospitata dalla Valle dei Templi e allo stesso Luigi Pirandello capitò di nascervi. Insomma, sposando questo punto di vista, ospitare un bene culturale o dare i natali a qualcuno non è di per sé un merito. È una questione di diatesi, nel primo caso, di forma attiva o passiva della frase; nel secondo un fatto casuale.
La storia, si è scritto, è vera. Il lettore potrebbe credere che si voglia posticipare l’argomento principale, evitarlo come farebbe Pereira, girarci attorno secondo i modi di Humbert, o dilungarsi con prudenza al pari del narratore della Peste. In questa premessa è sufficiente dire che Agrigento vanta anche altri meriti: è uno dei simboli ruggenti dell’abusivismo edilizio (anch’esso ruggente), presunta destinazione di un imminente rigassificatore (se inshore o offshore , non si sa ancora, perché Enel e Governo nazionale dichiarano cose diverse), Comune con la tassa sui rifiuti tra le più alte di Europa, possibile candidata a capitale della cultura 2025 – questo a insaputa dei greci, antichi e moderni, e di Pirandello. Agrigento, ancora, smarrisce il cinquanta per cento dell’acqua immessa nella rete idrica; però questo fatto, accadendo in tutta la Sicilia, non costituisce primato.
Questa storia, insomma, la storia che si tenta di raccontare, è realmente accaduta. Ma è pure un improprio tentativo di diagnosi, l’interpretazioneletteraria di ciò che non potrebbe esistere dal punto di vista amministrativo e sociale. La vicenda che, infine, sta per essere svelata, è banale. Però, nella sua banalità, la vicenda sintetizza, cristallizza, corrompe e forse – e persino – depura un habitus diffuso in questa località. Una località che, secondo la tesi in corso di dimostrazione, non esiste se non simbolicamente, per visioni, e per questo andrebbe inserita tra le Città invisibili (ma l’iscrizione è impossibile perché, si racconta, il Comune non dispone di un suo Piano regolatore generale vigente, e tutte le Città di Calvino ne hanno uno).
La vicenda. Tutto comincia da un circo con animali e un socio di una nota organizzazione animalista. Costui, perché non c’è altro modo di definirlo, intraprende un’iniziativa, un azzardo: segnalare che un noto circo, appena attendato in città, ha probabilmente violato le norme per l’affissione dei manifesti. La ragione di tale impresa – il lettore smaliziato lo avrà intuito – non è difendere il decoro urbano, quanto rendere la vita difficile ai circhi con animali (non graditi, secondo Lav – Lega antivivisezione – al settanta percento degli italiani). Secondo le dichiarazioni di una terza associazione animalista che vuole restare anonima, un animale in gabbia vuol dire sempre e soltanto sfruttamento; un animale, a meno che non abbia scelto di esibirsi per gli uomini, è schiavo; la schiavitù è maltrattamento e maltrattare gli animali è reato. Va osservato, al contrario, che molti personaggi di questo racconto, bipedi, sovente si esibiscono in piena libertà e in totale inconsapevolezza. Il decoro urbano, invece, non esiste o non esiste più: era un ingrediente narrativo utilizzato da alcuni romanzieri di metà novecento che non apprezzavano il cemento.
La sindrome. Nella storia, il protagonista decide di scrivere alla Polizia municipale per segnalare le verosimili effrazioni nell’affissione dei manifesti pubblicitari da parte del circo. Invia quindi una pec. Preferisce telefonare subito dopo aver spedito la posta elettronica: è consapevole che alcuni uffici del suo Comune possiedono un impiegato specifico addetto alle pec, e che talvolta questo impiegato è in malattia; quando accade, le pec non vengono lette. Il protagonista telefona al centralino della Municipale, viene trasferito alla sezione preposta – non ricorda quale – e segnala la presenza del messaggio.
Passano alcuni giorni. Un mittente sconosciuto, da un indirizzo sconosciuto, firmandosi come dipendente comunale, risponde che l’ufficio da contattare per questo tipo di verifica è l’Inpa, non la Polizia. Il protagonista si dirige allora verso questo ufficio, trova il portone aperto, ed entra chiedendo indicazioni a una signora incrociata per le scale: «Non ci sono partigiani in questo palazzo, non ne so nulla». L’attivista, così, dopo aver rassicurato la signora, giurando di non essere una spia nazista, illustrandole l’anno corrente nonché il quadro storico e geopolitico, sciolto pacatamente l’anagramma, procede nella ricerca dell’Inpa. All’interno dell’ufficio, deserto, una impiegata cortese spiega che lo sportello si occupa soltanto di gestire il pagamento dei diritti di affissione, pagamento dal quale i circhi sono esentati; la donna, saggia, non si pronuncia, invece, su quale sia l’ufficio competente nella verifica delle affissioni.
Andava specificato, forse, e fin dal principio, che il racconto contiene fatti di cronaca. Una cronaca turchese, forse, oppure violetta, certamente variopinta, in quanto pertiene fatti e personaggi fiabeschi. La prolungata esposizione a tali fonti cromatiche potrebbe indurre per questo sovraeccitazione o tentazioni psichedeliche. Il lettore smaliziato, d’altro canto, avrà già intravisto in questa ricostruzione elementi tali da scomodare morbosamente un eventuale scrittore ceco. Questa storia, però, si sforza di non essere morbosa ed è pur vero che Agrigento limita il suo dizionario di letteratura a due o tre nomi al massimo, preferibilmente morti o mai letti; a proposito di scrittori cechi, il cittadino – che, a differenza del lettore, conosce la malizia – penserà immediatamente a quell’autore omaggiato con una statua in pieno centro, con sedia libera a fianco per accomodarsi e posare per una fotografia. A Berlino, invece, Davide Dormino ha realizzato un complesso scultoreo che raffigura Julian Assange, Edward Snowden e Chelsea Manning; anche in questo caso c’è una sedia libera: talvolta un attivista sale in piedi su di essa e la utilizza come podio per una piccola manifestazione, spesso per difendere la libertà di stampa e condividere la lotta dei tre eroi eponimi. L’agrigentino, dal canto suo, in genere, lotta per il diritto al selfie. È proprio nel mezzo di questa battaglia che l’impiegata, contattata dal protagonista di questa storia, verrà interrotta.
Il protagonista, lasciato lo sportello dell’Inpa, decide di chiamare di nuovo la Polizia municipale. All’altro capo del telefono, prima ancora di udire la voce alla cornetta, si sente in sottofondo «Rispondi al telefono anziché farti i selfie» seguita da una sghignazzata maschile. «Pronto? Polizia locale» è una voce di donna «Non siamo noi a occuparcene, deve chiamare l’Inpa. Le do il numero…». L’attivista è convinto della buona fede della sua interlocutrice, così spiega con garbo l’equivoco. «Non so che dirle allora. Vuole sapere qual è l’ufficio competente? Non so aiutarla» replica la vigilessa «Chiami il 092250****. Non la sento bene, come dice?». Il protagonista chiede chi mai troverà a quel numero, quale sezione della Municipale risponderà alla chiamata. «Non so dirle, c’è il mio collega. È il settore che si occupa delle affissioni. Vuole sapere quale? Lei chiami, c’è il mio collega». Così, con diligenza, il personaggio di questa storia compone il nuovo numero: «Pronto? Non, non è l’ufficio giusto, deve fare 092251****. Ci ha appena parlato? Non so che dirle. Non si arrabbi con me. Provi allora a chiamare il ******». Nuova telefonata: «Centralino del Comune, chi desidera? Non so, le passo la segreteria del sindaco…». «Sì, pronto, segreteria del sindaco. No, non so, di questo si occupa il signor A*****. Aspetti, chiedo conferma. M*****, non è A***** che si occupa… Scusi, cosa le interessa esattamente…?».
In Le dodici fatiche di Asterix , nell’episodio della “Casa che rende folli”, dopo aver fatto sali e scendi da un piano all’altro, alla notizia di dover tornare al livello inferiore e recuperare l’ennesimo modulo burocratico, l’eroe di Albert Uderzo diventa di marmo: il viso si riempie progressivamente di rosso, secondo una linea che parte dal basso fino all’elmetto; raggiunta l’ebollizione, le orecchie emettono fumo e le penne dell’elmo cadono in avanti incrociandosi. Il protagonista di questa storia, tuttavia, penne sull’elmo non ne ha. La voce al telefono continua: «Affissioni, M*****, non è A***** che se ne occupa adesso? Chi, L***? No, L*** è in pensione. Secondo me è A***** che se ne occupa. M*****, ci sei? Chi? Chiedo. Signore, è ancora lì?».
Talvolta la nevrosi è più forte della convinzione. Talvolta, come nei cicli bretoni e carolingi, l’oggetto della ricerca non è il manufatto in sé – il Graal o la spada – ma il simbolo da esso rappresentato. Astolfo deve recarsi sulla Luna per recuperare il senno di Orlando, ma soltanto perché la ragione non può trovarsi sulla Terra, dove invece infuria la guerra. Il lettore senza malizia, a questo punto, vorrà sapere cosa c’entra Astolfo con la vicenda. «Aspetti, chiedo al mio collega». Da notare che Astolfo, per una qualche assurda coincidenza, è anche il nome del posteggiatore con cui il protagonista, disperato, si scontra accidentalmente lungo la strada del ritorno. Insomma, il protagonista del racconto in corso cerca anzitutto il senso, e lo cerca in una località dove la guerra non c’è. A essere onesti, il motivo alla base dell’iniziativa – l’affissione dei manifesti del circo, se il lettore ben ricorda – era ed è irrilevante.
Tutto questo per affermare che Agrigento non esiste. Agrigento, al pari di questo racconto, è un’ipotesi. Le ipotesi, per di più, sono tre, e il protagonista ne serva una in particolare e la custodisce nelle tempie: proprio nel punto in cui sta grattando, adesso, come per dissotterrarla. Grattarsi, del resto, è proprio il gesto che i lettori – quello con malizia e quello senza – hanno espletato durante questa lettura, interrogandosi sul dove il racconto andasse a parare.
Le ipotesi del protagonista e, infine, la sindrome di Agrigento. E se questo modo tutto agrigentino di scaricare le competenze, da un ufficio a un altro, una telefonata dopo l’altra, fosse intenzionale? No, è una lettura semplicistica e, il più delle volte, non tiene conto della natura – spesso allegorica – di alcuni dipendenti (l’allegoria è presto spiegata: in Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo, Lello Arena illustra al neocondomino milanese la figura mitologica del portiere, metà uomo e metà sedia, poiché nessun mortale lo ha mai visto alzarsi; ad Agrigento, nel caso di alcuni impiegati comunali, la mutazione è estesa e coinvolge l’intera scrivania).
C’è una seconda ipotesi, di segno diverso, che smentisce la prima. Esiste un solo impiegato o impiegata, e la sua natura è fantozziana. Questo spiegherebbe perché la risposta è sempre la stessa, ovvero «Ha sbagliato ufficio». Il lettore, o entrambi i lettori, a questo punto vorranno saperne di più (facoltativo). In un episodio della saga-capolavoro di Paolo Villaggio, i colleghi del ragioniere si recano in terrazza a prendere il sole. Fantozzi, quindi, deve coprirli e per questo gestisce un leonardesco marchingegno che gli permette di muovere sagome, timbrare più documenti in simultanea, rispondere a tutti i telefoni eccetera. Se si accetta che l’unico impiegato comunale di Agrigento, o almeno quello di turno, debba quantomeno rispondere a tutte le telefonate, ecco che l’interpretazione uomo-scrivania cade. A questa creatura occorrerà grande mobilità. L’esistenza dell’impiegato o impiegata unica, pur in assenza di accento svedese, spiega allora la perfetta conformità delle risposte degli uffici comunali. Una conformità che da qui in avanti, sebbene il racconto sia terminato, chiameremo “protocollare” («protocollo» in filosofia positivista: «enunciazione semplicissima, elementare, non scomponibile o riducibile, che si riferisce alle percezioni più immediate e costituisce il punto di partenza e il fondamento dell’edificio della scienza». Treccani).
Terza e ultima ipotesi, per il protagonista la più cara. Agrigento non esiste. I suoi impiegati hanno raggiunto questa consapevolezza e – affetti dalla sindrome – si comportano di conseguenza. I personaggi letterari, non a caso, non forniscono informazioni e non sono tenuti a svolgere alcun servizio. Lo Stregatto o il Brucaliffo hanno mai fornito una qualche indicazione attendibile a Alice? No, perché, pur essendo figure autorevoli, non sono tenuti a farlo e la loro natura fiabesca li esenta dal compito. Nel caso specifico dei vigili urbani, inoltre, il riferimento alle creature di Lewis Carroll è attinente: in presenza di queste o quelle apparizioni, il cittadino/Alice dubita della propria vista.
Conclusioni (facoltative). La quantità e la qualità delle riflessioni fin qui formulate conferma la terza ipotesi, nonché tesi di partenza: Agrigento non esiste . Con ogni probabilità, anche questo testo non esiste. Eppure i fatti riportati sono accaduti e, per la precisione e per una maggiore chiarezza, sono accaduti nella realtà.
Una morale non c’è e non ci può essere: Agrigento è tanto comica da risultare tragica ma non abbastanza tragica da assumere uno status letterario. È pursempre narrativa, certo, ma non tutta la narrativa è letteratura così come le trasmissioni di Nicola Porro o Paolo Del Debbio non sono giornalismo (anche loro, del resto, sono un parto della mente di Lewis Carroll).
Agrigento può candidarsi, e a pieno diritto, a capitale del «grottesco» (ciò «che provoca il riso pur senza rallegrare». Treccani). Ma può farlo in un puro esercizio speculativo, al di fuori del quale la città non esiste. La follia è, pertanto, ostinarsi in senso contrario: credere che, a un certo punto, l’incubo finisca e Agrigento diventi reale.