di Alfonso Lentini
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Non c’erano musiche in quella casa. Solo colpi secchi, rulli di tamburo, schiocchi di dita: suoni isolati spezzettavano in batuffoli tondi i cirrocumuli di silenzio che indugiavano wrrrrrrr a lungo nelle camere. Anche suoni animali talvolta: il raggelante belato di un agnellino che aspettava la Pasqua per terminare la sua breve esistenza, il gutturale strillo di un tacchino dai bargigli sgargianti, lo starnazzo di vari gallinacei dalle lucide penne. Nella parte più aerea della casa, nell’arco di terracotta e maiolica della vasta cucina, avevano montato rudimentali gabbie dove si alternavano animali di ogni specie. Persino i silenti conigli e qualche piccione, talvolta. Si viveva in spaventosa promiscuità: madri umane e madri animali si mescolavano e si affollavano. Le madri animali erano oggetto di cure e di affetti come se fossero umane. Il figliolino le chiamava per nome ed anche se un po’ intimorito carezzava la grassa madre tacchino, vezzeggiava i colombi e cantava loro per gioco una specie di ninna nanna amorevole. Ma le madri animali erano destinate all’uccisione, al tenero macello che, fra i rulli di tamburo, le avrebbe trasformate in cibo succulento che le madri umane avrebbero gustato intorno alla tavola imbandita, tutte insieme, nei giorni di festa. Nessuno sembrava fare caso alla contraddizione e all’indicibile crudeltà di quelle uccisioni. La morte era sempre appostata nel buio, dietro l’angolo, ma non bisognava guardarla, né parlarne. Ancora una volta era una serpe, un’idea sotterranea e innominabile, si mescolava in spurio connubio alla vita quotidiana. Un rullo di tamburo. Tutto era apparentemente vita e tutto, altrettanto apparentemente, si volgeva in morte.
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Rulli di tamburo non solo nella casa risuonavano; anche la piazza, lo stradone, tutto il paese era un rimbalzare degli echi di quelle ritmiche percosse. Erano tempi antichi e il paese possedeva un banditore, assunto dal Comune, che aveva l’incarico di vagabondare fra i vicoli e i cortili assolati con un grande tamburo al collo. Il suo secco picchiare sulla pelle tesissima dello strumento era un sottofondo sonoro che si sentiva in continuazione ora vicino ora lontano.
L’uomo era esile e alto come un filo d’aquilone e si vestiva con ogni temperatura di una lunga tonaca color sterro. Ogni tanto si fermava al centro di uno slargo, si schiariva la gola, faceva trascorrere qualche momento e poi, infiammato dal sole caldissimo, si dava a battere forsennatamente sulla pelle del tamburo. Picchiava sino a quando non vedeva che intorno a lui si era radunata una piccola folla (o almeno fino a quando si accorgeva che qualcuno, tendendo le orecchie dietro a una finestra socchiusa, fosse pronto ad ascoltare). Allora, dopo una breve pausa, si portava le mani alla bocca per amplificare la voce ed emetteva urla spiraliformi e sguaiate che avrebbero dovuto contenere il “bando”, cioè gli avvisi del Sindaco Melchiorre, detto Marsiò, o del Segretario comunale.
Le vibrazioni del tamburo si perdevano nell’aria smosse da un soffio di vento, oscillavano anch’esse come fili d’aquilone fra le tortuosità delle vaneddre, si adagiavano sulle lenzuola stese ad asciugare. Inseguivano le tortore in volo.
Mescolate ai barbagli del sole sulle persiane, quelle risonanze penetravano nelle case, si insinuavano ovattate nelle orecchie del bambino e in quelle delle cento madri. Rimbalzavano molli da ogni parte, ora qui ora là, ma la loro provenienza sembrava rimanere ignota.
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Tutto diveniva labile e tenue, non solo i rulli del tamburo, non solo i labili voli delle tortore, in certe giornate di fine autunno, con quel sole biancastro che sbiadiva i contorni delle cose. Allora sembrava che gli oggetti fossero dotati di una strana debolezza, che divenissero friabili e incerti. C’era odore di quinte teatrali. Sentori di scenografie, di cartone dipinto. Sembrava che gli oggetti si ricomponessero all’improvviso davanti agli occhi del bambino appena questi muoveva lo sguardo. Avevano un aspetto affannato, come se fossero appena tornati da una fuga ed avessero velocemente ripreso il loro posto. Le cento madri diventavano allora vecchie teatranti, rozze attrici imbrattate di belletto al comando di un invisibile capocomico. Recitavano la loro parte e poi, appena il bambino non le vedeva più, correvano nei loro immateriali camerini a riposare, in attesa di ritornare in scena quando il bambino avesse mostrato nuova attenzione verso di loro.
Anche le pareti delle stanze sembravano finte e qualche volta il bambino aveva la sensazione che da un varco del tetto sbucasse la faccia di un estraneo, forse lo stesso Regista al quale tutte le madri dovevano rendere conto, il Burattinaio che dirigeva ogni movimento dall’alto. Anzi il bambino aveva addirittura dato un nome a quel misterioso personaggio. Lo chiamava l’Imperatore, sicuro che esistesse e che fosse il suo vero padre.
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Stazionavano sul comò, ai lati di uno specchio sonnolento, due grandi candelabri di bronzo dai quali pendevano, a grappoli, prismi di purissimo cristallo che seminavano tutt’intorno, secondo i movimenti del sole, riverberi d’arcobaleno. Come una lanterna magica impazzita che diffondesse ovunque spicchi di iridescenze.
“Sono gli orecchini della gigantessa che abitava questa casa nei tempi dei tempi,” mi confidava per impaurirmi una delle madri cameriere. Ma ben altre erano le mie paure e quegli ingenui racconti servivano solo ad accendere la mia fantasia disturbata.
Il bimbo avrebbe voluto penetrare con tutto se stesso in quella selva accesa. Mentre piume di luce carezzavano i miei polpastrelli, io carezzavo i prismi che tintinnavano ad ogni tocco spandendo una musica lievissima e segreta. E il balenare dei rossi, dei violetti, delle sfumature aranciate sembrava insanguinarmi le dita. Mi lasciavo irretire da quella piccola foresta di cristallo e, penetrandovi solo con le mani, mi ci perdevo come entrandovi con tutto il corpo. In riguardoso silenzio, mi aggiravo fra le iridescenze che tremolavano ad ogni minimo soffio.
Era uno dei tanti modi per fuggire da quel mondo, uno dei primi presagi del delitto che il bambino avrebbe più tardi commesso.
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Ad ogni colpo di tosse del bimbo, un ragno grosso come un uovo si staccava dalle mani delle cento madri sedute in cerchio intorno a lui, e scivolava via sul pavimento. Ogni madre, un ragno. Ad ogni colpo di tosse, cento ragni invadevano il pavimento, grossi e giallicci, e si andavano a rifugiare veloci nei loro nascondigli.
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Quel giorno, quando l’uomo esile come un filo d’aquilone diede la notizia, le strade profumavano di rose e nell’aria volteggiavano nuvole di polline. Era un maggio fittissimo di esantemi. La natura sembrava avere la febbre, tanto la vegetazione germogliava dovunque con rabbia. Dalle crepe dei muri spuntavano forme intricate di erbe rampicanti che si allungavano a vista. Ai bordi delle strade si addensavano cardi, mimose, bocche di leone. Enormi insetti volavano pesanti, ubriachi di nettare.
Eppure quando l’uomo esile come un filo d’aquilone diede la notizia, c’era un silenzio asfissiante. La voce dell’uomo, preceduta da un triplice rullo, esplose con prepotenza: il Sindaco, diceva, il Sindaco è felice.
Il Sindaco Melchiorre, detto Marsioni, era l’uomo più potente del paese non perché fosse sindaco, quella era una contingenza irrilevante. Il Sindaco Marsioni lo amavano tutti perché era potente di suo e grazie a questo poteva a suo capriccio fare del bene a tutti (o a tutti fare del male). Era medico, perciò era sempre disponibile a qualsiasi ora del giorno o della notte. Lo si vedeva circolare con passo veloce, con quel suo gran cappello a falde larghe che gli ombreggiava lo sguardo, magrissimo, vestito completamente di bianco, ad eccezione di un fiocco nero che gli scendeva dal colletto; labbra contratte a muso di faina.
Nonostante fosse sposato da tempo con una donna giovane, il Sindaco Marsioni non aveva mai avuto figli.
“Il Sindaco è felice,” quella era la notizia, il contenuto del “bando”.
Il Sindaco, urlava l’uomo dopo aver riempito l’aria dei suoi rulli, il Sindaco è felice perché gli è nata una figlia! Gli ha messo di nome Marianna e tutti stasera siete invitati alla festa con banda, mongolfiere e castelli di fuoco. Tutti alla festa, tutti alla festa!, urlava l’uomo del tamburo con le mani a coppa per amplificare la voce, tutti alla festa per la nascita della piccola e invisibile Marianna.
La voce vorticava per i vicoli e i balconi, si moltiplicava attraverso le parole di coloro che sentivano la notizia e la ripetevano ad altri, straripava in ogni luogo.
Giunse, la voce, alle orecchie delle cento madri e infine a quelle del bimbo, che sobbalzò dalla gioia. L’attesa del volo che avrebbe colorato il cielo degli spicchi sgargianti delle mongolfiere, l’attesa dei fuochi, delle trecce argentate che avrebbero rigato i cieli notturni a migliaia, il presentimento della festa insomma, era per lui il massimo dei piaceri. Poi regolarmente seguiva una delusione cocente. Il piacere non corrispondeva mai del tutto alle aspettative. C’era sempre qualcosa che non era andata per il verso giusto, un mal di testa improvviso, ad esempio, una febbre. Oppure una frase oltraggiosa, che ti colpiva come una frustata.
Ma intanto l’attesa di per sé, e specialmente fra gli esantemi del maggio, era un evento colmo di delizia, da succhiare attimo dopo attimo nella più mielata beatitudine. Starsene al balcone, a maggio, in un dopopranzo di sole, premere la ringhiera con le braccia conserte e lasciare vagare lo sguardo tra i vasi fioriti e i lenti voli degli insetti, assaporare quel lieve aumento della pulsazione cardiaca. Mentre i raggi solari dorano sonnolenti la tua pelle, sentire con gli occhi semichiusi a pampinedda una piacevole ansia farsi più intensa via via che scorrono i minuti, quell’ansia che sale e ti carezza e ti spinge a pre-sentire, a immaginare in anticipo la cosa che succederà. Allora i fuochi notturni, immensi castelli di fuoco, già accendono il piccolo teatro della mente e fanno in anteprima, ma solo nel pensiero, la loro apparizione; e la pioggia argentata che scivola giù dai cieli e il rimbombo della banda e la luminaria e le mongolfiere e i dolciumi e la folla e la festa tutta assumono misure cosmiche, si sovrappongono alle fantasie giganti sulle costellazioni e la Via Lattea, si mischiano alla candida rosa dei beati che, dicono, circonda il luogo metafisico dove Dio ha la sua sede. Fantasie celesti di ogni genere fluttuano alla rinfusa, formano collane di pensieri adorni d’angeli e astronavi. E intanto aspettare.
Dal balcone, in lontananza, si vede la Valle dei Templi, sfumata di riflessi aranciati, e dietro di essa un filo di mare.
La Valle dei Templi: così dorata di tramonto, così prediletta dai fiori di mandorlo che sbocciano già ai bordi dell’inverno e vi si depositano a miliardi, bianchi e luminosi come una teporosa nevicata.
(E pensare che quelle colonne doriche, scanalate in un tufo millenario, sembrano così fragili e sul punto di sfaldarsi. Viste da vicino – e il bambino lo sa – si capisce che sono svuotate, bucherellate, come se tarli decrepiti le avessero nei millenni alleggerite. Il tufo poi è friabilissimo, basta che soffi un vento solo un po’ insistente e dopo alcuni giorni si formano incavi, levigature nuove. Com’è possibile, si chiedeva, che colonne così gracili abbiano resistito senza sfarinarsi per così tanto tempo?).
Giunse dunque al bambino la voce dell’uomo esile come un filo d’aquilone e lui cominciò ad aspettare la festa per la nascita della piccola e invisibile Marianna.
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Da “Cento madri” (Ed. Foschi 2009, opera vincitrice del premio letterario Città di Forlì)