di Vito Bianco
In una apposita sezione di Empirismo eretico, Pasolini ha radunato i principali interventi teorici sul cinema, compresa una vivace e persino allegra conversazione con i redattori della neonata rivista Cinema e film, della quale uno dei principali animatori era lo studioso e critico Adriano Aprà. Pasolini aveva detto di essere passato al cinema con la convinzione che fosse un modo più immediato, rispetto alla scrittura narrativa, di entrare in contatto con la realtà. Aveva creduto che girare film sarebbe stato come scrivere un romanzo, ma con un altro mezzo.
Succede però qualcosa che fa saltare questa convinzione: si rende conto che il cinema è un linguaggio radicalmente differente, poiché, diversamente dalla letteratura, rappresenta la realtà con la realtà: un uomo con un uomo, una casa con una casa, un abete con un abete (in un film, nota, non si dà mai un generico albero, ma ogni volta un ulivo, una quercia ecc.), un fiume con un fiume, e cosi via.
Da qui l’intuizione della realtà naturale come lingua pura che il cinema avrebbe il compito di far parlare, e il conseguente sogno di una semiologia del cinema che finirebbe col coincidere con una generale “semiologia della realtà naturale”. In fondo, dice Pasolini, la nostra vita non è che un lungo piano sequenza che termina con la morte; il film ideale sarebbe perciò un’unica ripresa senza soluzione di continuità, un pedinamento ininterrotto delle azioni del protagonista, ma così non è mai tranne rarissime eccezioni, perché il cinema abolisce l’illusione naturalistica dello scorrere del tempo con il montaggio, che trasforma la continuità temporale in realtà significativa e morale, oltre a costituire l’impronta stilistica del regista.
“Ma che cosa rende la realtà ‘naturalistica’ cioè irreale? Il tempo” scrive in “I segni viventi e i poeti morti”. Irreale perché il tempo non c’è, non è una sostanza che possiamo vedere o toccare. Sotto questo rispetto, il cinema non è un’arte naturalistica, “perché mai, in pratica, cioè nei vari films, il suo tempo è quello della realtà. Esso, cioè, non è irreale come nella realtà…”.
La presenza avvertibile e quasi tangibile del tempo nel film sarebbe quindi l’unico tratto non mimetico del cinema, che per il resto non fa che riprodurre la realtà che abbiamo perennemente davanti agli occhi. Ma l’idea che i film aboliscono il tempo urta contro l’esperienza che ne facciamo e la riflessione su questa esperienza; chiunque guardi una qualsiasi pellicola si accorge che essa scorre su una duplice temporalità: una esterna, dei novanta o più minuti della sua proiezione, e una interna, che si distribuisce nella durata delle singole inquadrature e nelle sequenze che vanno a comporre.
Questa durata interna non è fatta solo di momenti privilegiati, ma anche di momenti di passaggio o raccordo, che servono a preparare i momenti significativi o morali di cui parla Pasolini, anche se l’intera cornice temporale, scaturita dal ritmo del montaggio, rappresenta in se stessa un significato o senso: frenesia o riflessività, evocazione o azione… Il cinema quindi non abolisce il tempo ma lo riusa e lo lavora per i suoi scopi estetici, lo mette in forma, lo adopera come una materia d’arte.
Anche la convinzione che il cinema sia una riproduzione della realtà mi pare debole e un po’ ingenua, e stupisce che un critico acuto come Pasolini possa averla proposta. Intanto: siamo sicuri che la realtà naturale sia un linguaggio? E cosa dice, tale supposto linguaggio, se non se stesso? Siamo noi che investiamo la realtà di significati umani, che proiettiamo in essa la vita mobile del nostro mondo interiore e sociale.
È poi sostenibile l’ipotesi ermeneutica secondo la cui il cinema riproduce la realtà? Sembra invece che la produca, attraverso un calcolato artificio il cui risultato è una totalità significante, un artefatto estetico autonomo, con regole proprie e un’articolazione che corrisponde a una precisa necessità formale. Ogni film è una scelta drammaturgica e visiva, una selezione, una scelta intenzionale, insomma, una messa in scena di conflitti e storie, di ipotesi e possibilità: una immaginazione oggettivata offerta alla visione dello spettatore. Che possa farci credere di essere uno specchio della realtà dentro cui viviamo è la più forte seduzione del cinema, il canto di sirena con cui continua ad attirararci davanti a uno schermo nel buio di una sala.