La casa del principe di Montaperto dominava la città ed era situata di fronte alla chiesa madre, tanto che il principe dal suo salone delle feste poteva assistere alla messa domenicale comodamente seduto sul suo divano, senza uscire di casa e, soprattutto, non mischiandosi al popolino. Un piccolo privilegio concesso ai potenti. Il palazzo sorgeva su una piccola rocca, un po’ più in alto della chiesa, quasi a simboleggiare il fatto che se i due poteri (quello temporale e quello spirituale) si occupavano di ambiti diversi, tuttavia, fra di loro sussisteva una supremazia gerarchica ben definita.
Al tempo della nostra storia, comunque, il principe non c’era più e nei magazzini del palazzo, una volta adibiti a deposito delle derrate, ora c’era la sede della Camera del lavoro e della Federazione dei lavoratori della terra. Nella spazio antistante, ribattezzato dopo l’era fascista con il nome di piazza Progresso, partiva ogni Primo Maggio il corteo dei lavoratori con le cavalcature bardate a festa e una marea di bandiere rosse al vento, al suono dell’Inno dei lavoratori o di Bandiera rossa. In quel paesino i braccianti, i piccoli contadini, i pochi operai e i tanti disoccupati erano tutti comunisti, come Peppi e Turiddru. I più non sapevano leggere e scrivere e certo non avevano idea di chi fossero Carlo Marx, Friedrich Engels o Antonio Gramsci. Erano comunisti perché vivevano in povertà estrema, perché soffrivano, perché subivano tante ingiustizie, perché amavano la vita. Per loro il comunismo era una vita nuova, il superamento della miseria, un lavoro dignitoso, la fine dei soprusi, una società di uomini liberi, senza padroni, una comunità solidale, un mondo di pace e di fratellanza. Ecco perché erano comunisti ed erano pronti a combattere per quell’ideale, anche a costo della vita.
Nel secondo dopoguerra, Il clima sociale era incandescente e i rischi di scontri nelle piazze molto alti. Ogni sera si susseguivano le riunioni di contadini, braccianti e mezzadri per organizzare l’imminente occupazione del feudo di Grottamurata.
I padroni non erano certo disponibili a lasciare ai contadini le terre incolte, anche se di quei possedimenti spesso non conoscevano neanche i confini, limitandosi ad incassare il censo senza mai mettere piede nei feudi, consumando la loro esistenza tra feste e ricevimenti nelle lussuose dimore avite. La cura dei feudi era lasciata ai sovrastanti e ai campieri, quasi sempre esponenti della mafia locale, che offriva protezione ai signori. In cambio, cosa nostra aveva mano libera nel controllo del territorio, nella selezione della manodopera e nella intermediazione della ricchezza prodotta dall’agricoltura e dagli allevamenti.
Le decisioni da prendere alla camera del lavoro erano tante. Bisognava stabilire quanti e quali cavalli, asini e muli portare; quali attrezzi da lavoro utilizzare; in quali punti occupare il feudo; come organizzare il servizio di staffetta tra i vari siti di occupazione; se portare anche le donne e i bambini. Ma la questione centrale era soprattutto il comportamento da tenere in caso di cariche della polizia e dei carabinieri. Le disposizioni impartite dai prefetti erano chiare: ordine e disciplina innanzitutto. Bisognava considerare gli occupanti (gente povera e affamata, priva di tutto il necessario per sopravvivere) come pericolosi sovversivi e trattarli di conseguenza, usando tutta la durezza e la violenza necessarie. Le scelte per i manifestanti erano tre: disperdersi al primo accenno di carica, sciogliendo la manifestazione e accettandone il fallimento; opporsi con la forza, cercando di dissuadere le forze di polizia, rischiando di essere arrestati o, peggio ancora, sparati; infine, consegnarsi senza fare resistenza ma ribadendo le ragioni dell’occupazione. In caso di arresto, sapevano già cosa li aspettava: giorni o mesi di galera e un’accoglienza particolare non appena arrivati in caserma: schiaffi, pugni, calci, capelli tirati e, per i capipopolo, il trattamento speciale dell’annegamento simulato. Si trattava di una terribile pratica di tortura: si poneva il malcapitato in posizione supina legato ad un tavolaccio, poi gli si ficcava a forza un imbuto in bocca e si cominciava a versare acqua fino a quando il povero cristo non era sul punto di affogare. In quel momento si interrompeva il trattamento e si ricominciava subito dopo, non appena la vittima si era un po’ ripresa. Si andava avanti così per spirito punitivo, per scoraggiare nuove “azioni sovversive” o per costringere la vittima a confessare la “verità” utile agli aguzzini. La nostra costituzione era già stata approvata e sanciva il rispetto assoluto della persona umana, ma evidentemente quelle norme erano ancora sconosciute alle forze di polizia, il cui agire era intriso di principi autoritari e fascisti e non esente da un certo sadismo (anche in tempi recenti, come nel corso della riunione del G8 di Genova del 2001, si è potuto vedere di quale crudeltà siano capaci certi reparti della pubblica sicurezza).
Ma il pericolo più grave per i manifestanti era la mafia, schierata a difesa dei feudi.
Già tanti sindacalisti erano stati uccisi dalla mano assassina di cosa nostra. Erano stati colpiti vigliaccamente compagni come Lorenzo Panepinto a Santo Stefano di Quisquina, Accursio Miraglia a Sciacca, Placido Rizzotto a Corleone, Nicolò Alongi a Prizzi e tanti altri. Poi, c’era stata la strage della banda di Salvatore Giuliano a Portella della Ginestra e diversi attentati dinamitardi nelle sedi delle camere del lavoro. Per questo, finite le riunioni a tarda sera, era stata organizzata una vera propria scorta umana al segretario della camera del lavoro. I contadini lo accompagnavano in tanti a casa: si disponevano in cerchio attorno alla sua persona e gli facevano scudo con il loro corpo. Non avevano armi, ma sapevano (o almeno speravano) che la loro presenza numerosa sarebbe stata un elemento di dissuasione per i sicari mafiosi.
Le riunioni alla camera del lavoro erano interrotte al momento del cumunicatu, il notiziario della radio. Era il mezzo più rapido per informarsi delle manifestazioni nelle altre città della Sicilia e delle decisioni del governo, soprattutto del compagno Fausto Gullo, il ministro dell’agricoltura, il cosiddetto ministro dei contadini, quello che aveva istituito i granai del popolo, organismi pubblici per l’ammasso del grano a prezzi politici.
Le notizie provenivano da una radiomarelli ad armadio comprata di seconda mano e situata sopra un trespolo in fondo alla sala riunioni. Era posta in alto, in modo che tutti potessero vederla, come se le notizie si comprendessero meglio osservando quella fioca lucina rossa che si accendeva girando una grande manopola. In realtà, nessuno dei contadini aveva avuto una istruzione adeguata ed era in grado di capire quelle parole in lingua, per cui si ricorreva necessariamente ad un interprete: il segretario Micalangilu, l’unico in grado di coglierne il senso. Tutti gli occhi erano puntati su di lui e, a seconda del modo in cui egli muoveva la testa (dall’alto in basso o lateralmente), dalle espressioni di scoramento o di compiacimento del suo volto, dal movimento delle sue mani poggiate sul tavolo, da qualche parola sibillina (sbrigugnati, senza russura, oppure, beni veru, accusi ci semu) riuscivano a capire il tenore delle notizie. La sera, tornati a casa, alla domanda delle mogli “chi dici u cumunicatu?” la risposta poteva essere: “Micalangilu calava a testa”, come segno di approvazione e, quindi, di notizie positive; oppure, “Micalangilu tistia” (muoveva la testa da una parte all’altra), indice di contrarietà e pertanto di cattive notizie.
In quella moltitudine di braccianti analfabeti o che sapevano a malapena mettere la loro firma e leggere stentatamente qualche parola, un piccolo gruppo di uomini coraggiosi e combattivi, apprezzati da tutti, seppe farsi classe dirigente, grazie anche alla scuola di partito, per guidare efficacemente le lotte di un popolo. Micalangilu, Mimu Cravuni, Marianu sapevano parlare al cuore e alla mente dei loro compagni ed erano un tramite indispensabile tra i vertici del sindacato e del partito e le masse proletarie.
I problemi sorgevano quando alle riunioni della camera del lavoro partecipava qualche dirigente esterno. Generalmente gli incontri erano molto affollati e i toni accesi. C’era il bisogno di parlare, di chiarire, di confrontarsi con gli altri, di trovare coraggio e determinazione nella comune volontà di riscatto, di esorcizzare tramite la forza del gruppo la paura dello scontro, della prova di forza con le istituzioni e i malavitosi.
Alla riunione della sera precedente l’occupazione del feudo, la segreteria regionale della CGIL, vista l’importanza e i rischi della lotta intrapresa, aveva inviato un dirigente nazionale, come segno concreto di attenzione e di apprezzamento per quel grande movimento di popolo. La sala era stracolma, tutti i contadini erano in silenzio ad ascoltare le parole del dirigente, delle quali però capivano ben poco, e Micalangilu, còmpito e forse un po’ in soggezione, vista l’importanza dell’ospite, non dava alcun segno utile ad orientare quel popolo smarrito in quel linguaggio dal suono straniero e incomprensibile. Questo silenzio venne interpretato dal compagno dirigente come una freddezza nei suoi confronti: forse, pensò, non condividono qualche passaggio del mio discorso. Allora cercò di familiarizzare con gli astanti, per suscitarne l’empatia, favorendo un contatto ravvicinato con i compagni. Interruppe la lettura del suo intervento, si tolse gli occhiali, posò i fogli della sua relazione sul tavolo della presidenza, arrotolò le maniche della camicia e, cominciando a parlare a braccio, andò in giro a scrutare quelle facce mute. Infine, rivolto al segretario Micalangilu, disse: compagni, parliamoci chiaro, dobbiamo abbattere questo muro che c’è tra di noi. Finalmente Micalangilu diede un cenno di approvazione con la testa. Era il segnale che quella folla attendeva. Immediatamente una valanga di applausi risuonò nella sala, accompagnata da espressioni di approvazione e di entusiasmo: beni veru, prosita e prosituni, cca semu, pi nantri ‘un manca, comu dici tu cumpagnu.
La riunione si sciolse tra abbracci, strette di mano e pugni in alto, lasciando però qualche perplessità nella mente del compagno dirigente sul senso dell’accaduto. Ma fu solo un piccolo dubbio: l’importante era la ritrovata sintonia con tutti i compagni, viatico di successo della lotta politica.
Usciti dalla sezione, Peppi e Turiddru manifestarono anche loro qualche incertezza sull’esito dell’incontro.
- Pè, ma tu u capisti unni si trova stu muru c’ama allavancari?
- No, Turì. U cunpagnu è bravu, ma parlava difficili, nun lu capivu. Ma nun mi nni futti menti d’unni si trova stu muru, chiddru ca c’è dall’allavancari all’avancu. Nun mi fermu davanti a nenti.
- Sugnu d’accordo cu tia, Pè. N’ama nesciri di sta vita, allavancamu nzoccueghiè, fina li corna di lu baruni.
- Gna certu. U vidisti, Turì? Puru Micalangilu calava a testa.
- Già, Pè, di Micalangilu nni putemu fidari.
L’indomani, a notte fonda, Peppi e Turiddru partirono con i compagni per l’occupazione del feudo con tante bandiere rosse al vento, armati solo di zappe e tenendosi a braccetto per farsi coraggio l’un l’altro. Uomini e donne disperati e determinati a cambiare il loro futuro.
Riusciranno a vincere quella battaglia: i feudi verranno aboliti e molte terre distribuite ai braccianti. Perderanno, però, la guerra per una società più giusta. Le terre distribuite ai più poveri furono le meno produttive, spesso delle pietraie, mentre il controllo delle grandi tenute e del commercio dei prodotti agricoli si accentrò sempre più in poche mani ricche e potenti. I poveri rimasero poveri e per loro, come per Peppi e Turiddru, si prospettò un’unica possibilità: l’emigrazione.